Per i prossimi sei mesi, la politica italiana (e non solo italiana) sarà in campagna elettorale, in vista delle elezioni europee dei primi di giugno. A scadenza pressoché quotidiana, giornali e programmi tv pubblicano sondaggi, e impiegano pagine (o minuti) a discutere di variazioni intorno allo zero virgola. In realtà, se si guarda a una media ponderata dei risultati delle diverse rilevazioni, si vede perfettamente come da aprile scorso, ossia da circa otto mesi, i valori siano immobili: FdI sta fra il 29 e il 30 per cento, il Pd fra il 19 e il 20, i 5Stelle intorno al 16, la Lega fra il 9 e il 10, Forza Italia fra il 7 e l’8 per cento. Tutto questo, con percentuali di indecisi/astenuti/non rispondenti fra il 35 e il 45 per cento. I sondaggi si muoveranno, certo, prima delle elezioni europee, ma bisognerà aspettare almeno il prossimo aprile per avere indicazioni significative sul voto.

In Italia, i sondaggi elettorali non si muovono da otto mesi

(media ponderata dei sondaggi, novembre 2021-novembre 2023; fonte: Politico, Poll of Polls, 24 novembre 2023)

 

Questa stabilità, peraltro, è in marcato contrasto con gli andamenti osservabili negli altri grandi paesi europei nello stesso arco di tempo, ossia da aprile a oggi.

  • In Germania, il partito di estrema destra AfD è passato dal 15 al 22 per cento, al secondo posto dopo i popolari, superando socialdemocratici e verdi, scesi, rispettivamente, dal 19 al 16 e dal 16 al 13 per cento, e registrando un notevole successo nelle elezioni di ottobre in Assia e Baviera.
  • In Spagna, dopo le elezioni anticipate di luglio volute dal primo ministro socialista Pedro Sanchez e vinte di misura dai popolari, è stato però Sanchez a formare un governo a novembre assicurandosi l’appoggio dei due partiti autonomisti catalani, operazione che parrebbe non averlo premiato.
  • In Polonia, il partito di destra PIS (Diritto e Giustizia) è stato sconfitto alle elezioni il 15 ottobre, e continua a perdere consensi a favore della Coalizione civica del popolare Donald Tusk, che dovrebbe formare il nuovo governo.
  • In Francia, infine, il presidente Emmanuel Macron, dopo una lieve ripresa di favore, è tornato ai minimi toccati ad aprile subito dopo la riforma delle pensioni.

La stabilità italiana trova conferma anche in un altro dato, quello relativo all’approvazione per l’operato dei capi di governo. Fra i leader UE Giorgia Meloni, con il 44 per cento, è di gran lunga la più apprezzata dai propri concittadini, e stacca nettamente Pedro Sanchez (37 per cento), per non parlare di Emmanuel Macron e Olaf Scholz, rispettivamente al 26 e al 24 per cento.

Nell’UE, è Giorgia Meloni il capo di governo più apprezzato dai suoi concittadini

(val. % sul totale dei rispondenti; fonte: Global Leader Approval Tracker, Morning Consult, 24 novembre 2023)

 

Così stando le cose, tutto farebbe pensare che le elezioni europee possano rappresentare, per la Presidente del Consiglio e il suo partito, l’occasione di un successo significativo. Gli italiani, probabilmente, valutano in maniera abbastanza positiva (il consenso per Giorgia  Meloni resta ben inferiore a quello riscosso dal  suo predecessore Mario Draghi) un governo che, al di là delle prese di posizione più o meno estemporanee di alcuni suoi componenti – e malgrado paia navigare a vista più che perseguire in  maniera coerente obiettivi definiti – non ha fatto scassi nella finanza pubblica, ha gestito meglio delle attese il rapporto con l’Unione Europea, e in qualche modo dà la sensazione di rispondere al suo elettorato di riferimento. Anche solo con operazioni “cosmetiche” come l’accordo sui migranti con l’Albania (quale che sia il giudizio sul progetto, resta che 3.000 persone, rispetto ai quasi 150.000 arrivati in Italia dall’1 gennaio al 15 novembre 2023, sono un numero irrilevante).

Viene da chiedersi a questo punto per quale ragione, in una situazione tutto sommato confortante, la Presidente Meloni abbia deciso di complicarsi la vita con la proposta di riforma costituzionale incentrata sull’elezione diretta del Presidente del Consiglio. Perché di una complicazione si tratta, su questo non c’è dubbio. Secondo un sondaggio realizzato da Ipsos per il Corriere della Sera e pubblicato il 18 novembre scorso, la percentuale degli intervistati che ritiene il premierato una scelta più democratica (36,3) è pari a quella di chi la considera una scelta rischiosa (36,2); inoltre, solo secondo il 25,8 per cento la riforma garantirebbe una maggiore governabilità rispetto a oggi, mentre il 30,2 è convinto del contrario, e il 44 per cento semplicemente non ha un’opinione.

L’italiano medio non è un costituzionalista, e questo si sapeva. Se però si arrivasse davvero a un testo votato in parlamento (cosa tutt’altro che sicura) questo, per com’è oggi la situazione, sarebbe approvato, al massimo, dalla maggioranza di governo con qualche aggiunta, ben sotto la soglia dei due terzi dei parlamentari. Dunque, si andrebbe al referendum confermativo, e a quel punto anche i non costituzionalisti un’idea dovranno farsela. Presumibilmente – e com’è già accaduto in passato – questa idea se la faranno, più che sul merito della legge, sulla simpatia/antipatia per chi la propone.

È questa, però, la riforma di cui abbiamo bisogno oggi? Sinceramente, se ne può dubitare. E non per nostalgia dei governi tecnici. Una democrazia funzionante ha bisogno di governi eletti, non di continue sospensioni del voto e “supplenze” che i partiti accettano di malavoglia e fanno saltare appena possibile (oltretutto, con il vantaggio di potere attribuire ex post alle “élite globaliste” le scelte difficili). 

Che i poteri del presidente del consiglio vadano rafforzati è un’opinione condivisibile, e ci sono molti modi per farlo: la sfiducia costruttiva, la possibilità di licenziare i ministri, una “corsia preferenziale” per i disegni di legge governativi in parlamento, la formalizzazione della richiesta motivata di elezioni anticipate al Presidente della Repubblica che eviti il rischio di cercare in Parlamento una maggioranza purchessia, animata magari solo dal desiderio di prolungare il mandato (se ne possono immaginare altri). Che la strada giusta per ottenere il risultato, in questa fase della politica non solo italiana, sia l’elezione diretta del capo del governo è invece tutt’altro che ovvio. I parlamenti servono a trovare punti di equilibrio su questioni su cui gli elettori sono divisi. Pensare di saltare questa mediazione con l’elezione diretta serve solo a costruire una camicia di forza, che accentua il senso di estraniamento dei perdenti rispetto alle scelte dei vincitori, come il caso francese ampiamente dimostra.
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I francesi non hanno fiducia né nelle istituzioni nazionali né in quelle comunitarie

(risposte alla domanda “Tendi a fidarti di…?”, somma delle risposte “poco” e “per nulla”, val. % sul totale dei rispondenti; fonte: Eurobarometro n. 99, giugno 2023)

 

I sondaggi valgono quello che valgono, ma in Francia la sfiducia nelle istituzioni politiche monta da qualche anno, è ormai ai massimi rispetto al resto dell’Europa, esplode periodicamente in rivolte come quella dei cosiddetti gilet gialli nel 2018 o quella della primavera scorsa contro la riforma delle pensioni, e verosimilmente si alimenta del fatto che l’elezione presidenziale riduce le scelte a una secca alternativa binaria in cui per molti è difficile riconoscersi. Sistemi di questo tipo (“chi vince piglia tutto”) mostrano la corda anche nei paesi più convintamente maggioritari come il Regno Unito e gli USA, dove molti ormai s'interrogano sulla opportunità di introdurre elementi di proporzionalismo nei meccanismi elettorali.

Il fatto è che, per funzionare bene, i sistemi maggioritari hanno bisogno di un consenso di base non solo sulle regole del gioco, ma anche in qualche modo sull’agenda politica, tale da creare fiducia e una certa stabilità pur nell’avvicendarsi dei governi. Oggi, le coordinate di sistema che hanno governato le democrazie occidentali nella seconda metà del Novecento sono saltate dappertutto, i partiti nascono e muoiono come le farfalle. In attesa di nuovi equilibri – che arriveranno, ma non paiono alle porte – è senza dubbio più saggio prendere atto dei dissensi e lavorare per trovare punti di incontro. I sistemi proporzionali sono serviti in tempi difficili anche a questo, ossia, per esempio, a integrare partiti che nascevano come antisistema in una prospettiva parlamentare e collaborativa. L’evoluzione di Giorgia Meloni da questo punto di vista è un caso da manuale.

Pensare di trasformare ogni elezione in un referendum personale, come avverrebbe invece nel contesto politico attuale, è una vera sciocchezza. Non è affatto detto che porti bene a chi lo propone. Quanto agli elettori, poi, la soddisfazione di sapere la sera delle elezioni chi governerà il giorno dopo potrebbe essere alquanto mitigata dalla scoperta che si tratterà, per dire, di Beppe Grillo. Da solo. E sostituibile solo dal suo vice.