La sua storia è più recente della sorella Cop (Conferenza delle Parti sul clima arrivata alla sua ventisettesima edizione a novembre), ma il suo bisogno è di anno in anno più cruciale. Stiamo parlando della Cop15, la Conferenza delle Parti della Convenzione delle Nazioni Unite sulla Diversità biologica (Cbd) in programma a Montreal fino al 19 dicembre con 10mila delegati da tutto il mondo.
Istituzioni, aziende e cittadini stanno iniziando ora a prendere sul serio i problemi legati al riscaldamento globale e dobbiamo parlare di un’altra minaccia? Purtroppo sì, perché l’attività antropica e le anomalie climatiche legate ad essa hanno avuto degli impatti devastanti sull’ambiente naturale, e perché, sebbene si verifichi in maniera ancora più silenziosa e invisibile del cambiamento climatico, la perdita di biodiversità sta mettendo a rischio servizi ecosistemici vitali.
Perché conoscerla e proteggerla è vitale
La pandemia da Covid-19 ha riacceso i riflettori sul tema, molti hanno sperimentato una riscoperta della natura e la scienza ha dichiarato forte e chiaro che la biodiversità (foreste ricche ed ecosistemi equilibrati) è la miglior arma contro l’insorgenza di malattie zoonotiche. Perfino il Pantone Color Institute ha di recente lanciato un colore, sulla tonalità del rosa, chiamato proprio color of biodiversity. Alle spalle dell’apparente frivolezza c’è la scoperta scientifica di un pigmento antichissimo estratto da un gruppo di rocce sedimentarie del deserto del Sahara e la volontà di portare l’attenzione sulla varietà di organismi viventi che hanno abitato la Terra.
Naturalmente, l’uomo ha avuto un impatto sulla biodiversità da quando ha popolato la Terra, 300mila anni fa. Da allora il rapporto tra uomo e natura è stato influenzato dal pensiero e dalla religione dominante, dalla politica e dal progresso tecnologico. A un certo punto la presunzione umana ci ha portati a pensare di poter vivere al di fuori delle leggi della natura trascurando il fatto che tutto ciò che ci permette di vivere deriva dalla Terra: l’uomo ne è parte.
Abbiamo sovrasfruttato i servizi ecosistemici a cui abbiamo associato un valore di mercato, come la produzione di cibo, legname ed energia, alle spese di servizi che se avessero un prezzo pochi si potrebbero permettere di comprare: la regolazione del clima, della qualità dell’aria e della disponibilità di acqua, il contenimento dei rischi naturali, l’impollinazione e il mantenimento degli habitat.
Natura: la miglior alleata contro la crisi climatica
Negli ultimi 10 anni il 31% delle emissioni di anidride carbonica prodotte dall'uomo è stato assorbito dagli ecosistemi terrestri e il 23% dagli oceani, cioè la natura ha rallentato il riscaldamento climatico e protetto l’uomo dai suoi impatti più severi. Peccato che oceani, suolo e foreste funzionino come pozzi di carbonio quando sono sani, mentre ora la loro capacità è stata spinta verso il limite. Pertanto, la prima strategia di mitigazione contro il cambiamento climatico è salvaguardare e conservare gli ecosistemi che costituiscono i più ricchi depositi di carbonio sulla Terra. Si tratta delle foreste naturali intatte e delle zone umide, le foreste tropicali da sole trattengono una quantità di carbonio pari a un terzo dei livelli presenti in atmosfera. La seconda è ripristinare gli ecosistemi degradati e gestirli in modo da massimizzare il sequestro di emissioni climalteranti. L’agricoltura, la silvicoltura e l’uso di suolo hanno un potenziale di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra tra 8 e 14 miliardi di tonnellate di CO2 equivalente all’anno.
Arruolare le aziende
La vastità e la complessità del problema richiedono di essere affrontate con un approccio sistemico e inclusivo, gli stessi responsabili del degrado del sistema naturale terrestre e marino devono essere coinvolti nel processo di ripristino e rallentamento della perdita di biodiversità. Se da un lato ci sono governi corrotti che si sono sentiti padroni di beni comuni naturali e ne hanno concesso il depauperamento, dall’altro ci sono imprese che senza scrupoli hanno contribuito alla deforestazione di ettari ed ettari di foreste vergini, all’espansione delle monocolture, all’esaurimento di risorse ittiche e all’inquinamento del suolo e delle falde acquifere.
La Cop15 di Montréal approverà una serie di target per la conservazione e il ripristino delle aree naturali più importanti per la difesa della biodiversità, chiederà ai governi di eliminare sussidi avversi e alle imprese di misurare e rendicontare la loro dipendenza e il loro impatto sulla natura.
Per aiutare le aziende e le istituzioni finanziarie a comprendere a quali rischi legati alla crisi ecologica sono esposte e individuare di conseguenza forme di risk management e strategie adeguate, il Tnfd (Task force on nature-related financial disclosures) sta sviluppando un framework ad hoc che si integri con gli standard climatici e ambientali esistenti. A novembre è stata pubblicata per la consultazione pubblica una versione beta del framework che si tradurrà in una versione definitiva a settembre 2023. Allo stesso tempo lo strumento dovrebbe guidare le aziende a identificare la dipendenza dalle risorse naturali, mitigare l’impatto negativo e sviluppare azioni positive nei confronti della natura.
Di pari passo dovrebbero irrigidirsi i controlli sulle azioni di tutela e ripristino del capitale naturale, come la riforestazione, per non farle diventare facili operazioni di greenwashing dentro i bilanci di sostenibilità delle multinazionali. Non è sufficiente piantare alberi. Per ottimizzare il sequestro del carbonio e favorire la biodiversità, la riforestazione e l’afforestazione devono rispettare criteri conosciuti dai professionisti (scelta delle specie e del terreno, modalità di impianto o rigenerazione naturale...) e preferibilmente estendere l’impatto positivo alla dimensione sociale. Molte di queste iniziative si concentrano nei paesi non industrializzati creando un indotto economico e apportando benefici alle comunità locali.
Imparare a conoscere
Per aprire gli occhi su questa crisi ecologica, suggerisco di seguire Valeria Barbi nel suo progetto Wane (We are nature expedition), una ricerca sul campo che nei prossimi mesi porterà l’esperta di biodiversità e divulgatrice in 14 paesi attraversati dalla Panamericana per parlare di specie animali e vegetali in via di estinzione ma soprattutto di professionisti, tribù locali, ideatori di strategie e buone pratiche che lottano per salvaguardarne l’esistenza. L’obiettivo è portare nelle scuole e nelle aziende questo esperimento narrativo e rendere uno strumento educativo le buone pratiche raccolte dal reportage che, opportunamente adattate, possono essere replicate in altri contesti. Lasciamoci ispirare per saper intraprendere una rivoluzione nelle azioni e nel modo di guardare alla natura.
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