"OK, il prezzo è giusto" era un gioco a quiz televisivo di una certa notorietà a fine anni Ottanta e negli anni Novanta. In quel caso, i concorrenti dovevano indovinare i prezzi effettivi di diversi prodotti. Il discusso decreto che prevedeva un tetto massimo ai prezzi del trasporto aereo, che il governo si appresta a modificare, ripropone la questione del prezzo giusto, ma da diversa angolatura: cioè, quando il prezzo praticato si possa definire non eccessivo. Poiché viviamo (per fortuna) in un’economia di mercato fondata sul sistema dei prezzi, il tema ha conseguenze fondamentali su ciascuno di noi. Il rapporto di noi cittadini con i prezzi è spesso conflittuale: li vorremmo più bassi, quando compriamo; e magari più alti, se vendiamo. Ma molti sono infastiditi anche dalle variazioni del prezzo nel tempo e nello spazio, o fra diversi consumatori che acquistano lo stesso prodotto: pensiamo agli hotel, che in alta stagione costano molto di più che in bassa stagione, o ai frequenti sconti personalizzati.
Dal baratto in poi
A ben guardare, la differenziazione di prezzo è sempre esistita, almeno nella sua forma più semplice, cioè quella della contrattazione individuale fra il singolo venditore e il singolo acquirente: anzi, probabilmente, essa era insita già nelle forme di scambio primordiali, basate sul baratto, ben prima dell’utilizzo della moneta e della creazione di mercati organizzati. La contrattazione individuale persiste tuttora, e i prezzi sono trattabili in diversi settori, ad esempio l’acquisto delle automobili.
Cosa cambia oggi rispetto al passato? Che la differenziazione di prezzo non è più (solo) basata sui ragionamenti di una persona, ma è stata automatizzata, grazie ai software che modificano il prezzo sulla base dell’andamento della domanda o sul comportamento precedente dell’utente, e, più di recente, agli algoritmi basati sull’intelligenza artificiale che imparano con l’esperienza quale sia il prezzo migliore per il venditore. Dal punto di vista delle imprese, la differenziazione di prezzo diventa da una parte meno costosa, perché non serve più una persona che “scruti” il compratore e la domanda, e sulla base di questo decida il prezzo, dall’altra parte anche più redditizia, grazie alla precisione dei software che possono basare la scelta del prezzo su una gran mole di dati opportunamente processati. Perciò, le imprese se ne avvalgono sempre di più, avvalorando la diffusa percezione che essa stia diventando sempre più ubiqua e pervasiva. Tutto ciò fa bene ai consumatori? La risposta è quella classica di noi economisti: dipende. In un certo senso no, perché in media i prezzi possono essere più elevati. In un certo senso sì, perché in molti casi è possibile che diminuiscano i prezzi nei momenti di “bassa stagione”, consentendo magari anche a chi ha un budget limitato, ad esempio, di prendere l’aereo per raggiungere una destinazione turistica in un momento nel quale, altrimenti, l’aereo sarebbe rimasto mezzo vuoto.
I rischi legati al decreto
A questo punto, possiamo chiederci se fa bene il governo a modificare il decreto che interferiva con gli algoritmi, limitandone la possibilità di utilizzo, e con essa la possibilità di differenziazione di prezzo, per le compagnie. Interferire direttamente con il prezzo fissato dagli algoritmi è rischioso. Nel decreto, si prevedeva che il prezzo non potesse risultare superiore al 200% del prezzo medio del volo. La norma avrebbe potuto indurre le compagnie aeree a aumentare i prezzi in bassa stagione, lasciando inalterati quelli in alta stagione, con un effetto negativo sui consumatori, che non avrebbero più potuto approfittare di offerte vantaggiose in bassa stagione, e allo stesso tempo alle imprese, che non avrebbero riempito i loro voli in bassa stagione, riducendo i profitti. Con l’ulteriore rischio che, a causa della riduzione di profitti, alcune imprese decidessero di ridurre il numero di voli o di abbandonare certe rotte, diminuendo la concorrenza e generando un ulteriore aumento dei prezzi. Inoltre, il decreto impediva la cosiddetta profilazione degli utenti, cioè una differenziazione di prezzo basata sul luogo in cui essi prenotano o il dispositivo che utilizzano per la prenotazione. Anche in questo caso, il rischio è che, nello stabilire un prezzo uguale per tutti, anziché eliminare i prezzi alti, le compagnie eliminassero i prezzi bassi, con un danno di nuovo sia per i consumatori, sia, in termini di profitto, per le imprese.
Efficacia solo apparente
Il decreto era dunque un rimedio semplice, ma solo all’apparenza efficace. La sua modifica è dunque da accogliere con favore. Intendiamoci: l’obiettivo di avere una riduzione di prezzi è sacrosanto, ma i mezzi per ottenerlo non sono probabilmente quelli previsti dal decreto. Occorre, invece, stimolare la concorrenza e verificare che a essa non si associno comportamenti collusivi e che non venga violata la privacy dei consumatori senza il loro consenso. La complessità della questione consiglia di evitare interventi a gamba tesa, che rischiano di essere un rimedio peggiore del male. Meglio, se si deve intervenire sui prezzi, che se ne occupi un’autorità indipendente come l’antitrust, come peraltro previsto dalle modifiche al decreto. L’antitrust ha le competenze per farlo in modo chirurgico e per minimizzare le conseguenze indesiderate: gli effetti magari non saranno immediati come quelli di un tetto massimo ai prezzi, ma molto probabilmente saranno migliori.
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