Curiosando tra gli scaffali di una libreria mi è caduto l’occhio sulla riedizione di “Destra e sinistra” di Norberto Bobbio (Donzelli, pagg. 378, euro 16): un longseller da mezzo milione di copie, tradotto in 26 Paesi che – giovane studente di filosofia dell’ateneo torinese – avevo divorato alla sua uscita, trent’anni fa. Era il 1994, un anno cruciale per la politica italiana: l’ultima fase di Tangentopoli, la nascita di Forza Italia e l’inattesa vittoria elettorale di Berlusconi, l’auto-esilio di Craxi ad Hammamet, la diaspora democristiana tra il Ppi di Martinazzoli e il Ccd di Casini, il passaggio di testimone tra Occhetto e D’Alema nel Pds. L’anno di nascita della seconda Repubblica, insomma.
Correva l'anno 1994
Sfogliando le pagine asciutte e sempre lucide del grande filosofo della politica e del diritto, la tesi di fondo emergeva chiaramente: «Il criterio rilevante per distinguere la destra e la sinistra è il diverso atteggiamento rispetto all’ideale dell'eguaglianza». Siccome «gli uomini sono tra loro tanto uguali quanto diseguali», infatti, la destra guarda più a ciò che li rende diseguali, mentre la sinistra si concentra di più su ciò che li rende uguali e si adopera per «rendere più uguali i diseguali».
Secondo Bobbio, poi, la distinzione destra/sinistra si intrecciava con quella tra estremisti e moderati fondata sulla libertà e dalla combinazione di entrambe derivava quelle che per lui sono le quattro posizioni politiche principali, fuori e dentro l’arco costituzionale.
A proposito di giacobinismo
Innanzitutto «all'estrema sinistra stanno i movimenti insieme egualitari e autoritari»: lui faceva un vago riferimento al “giacobinismo”, ma non credo sia fargli un torto inserendo qui tutti i totalitarismi comunisti, dallo Stalinismo sovietico, alla Cina di Mao, alla Cambogia di Pol Pot. Poi collocava, «al centro-sinistra, dottrine e movimenti insieme egualitari e libertari»: qui il riferimento era alla tradizione socialdemocratica europea, in quel momento rappresentato in Italia dal Pds. Successivamente posizionava, «al centro-destra, dottrine e movimenti insieme libertari e inegualitari»: Bobbio parlava genericamente di “partiti conservatori”, ma, in quell’anno, il suo pensiero probabilmente andava – sebbene forse con qualche riserva – a Forza Italia (la Lega Nord era ancora fortemente secessionista e il Msi avrebbe compiuto la svolta di Fiuggi solo l’anno seguente). Infine si collocavano, «all'estrema destra, dottrine e movimenti antiliberali e antiegualitari», che lo stesso filosofo identificava con i totalitarismi di destra: fascismo italiano e nazismo tedesco.
Dall’uscita di quel libro, in Italia abbiamo sperimentato tutte le alchimie elettorali possibili per innestare una qualche forma di bipolarismo (e per un po’ forse ci siamo anche riusciti, con l’alternanza Prodi-Berlusconi), in un Paese socialmente lacerato e endemicamente campanilistico, salvo poi dover ricorrere a governi di solidarietà nazionale (Monti nel 2011 e Draghi dieci anni dopo) per non farci commissariare da Bruxelles.
Rileggendo questo saggio trent’anni dopo e, per la prima volta, con una coalizione guidata da un partito di destra al Governo, quindi, viene da chiedersi se l’approccio di fondo non sia stato vittima – il Maestro mi perdoni la sfrontatezza – se non della fallacia della “falsa dicotomia”, certamente di una semplificazione un po’ troppo manichea: un atteggiamento storicamente comprensibile alla luce di quella stagione politica che aveva visto, in una manciata di mesi, la dissoluzione del centrismo democristiano sotto gli avvisi di garanzia di “Mani pulite”.
La rilettura con gli occhi di oggi
A distanza di tre decenni, quindi, si possono fare due considerazioni.
Innanzitutto va osservato che la visione forzatamente dicotomica tra libertà e uguaglianza (e – da buon “socialista liberale” – Bobbio ritiene la seconda nettamente più importante della prima) porta il filosofo a porre – seguendo forse più il cuore che la ragione («mi sono sempre considerato un uomo di sinistra», ammette) – il baricentro ideale dell’arco costituzionale nel campo della socialdemocrazia: solo lì, infatti, ci sarebbe il massimo di libertà e il massimo di uguaglianza.
La realtà, invece, ha mostrato e mostra come ogni centrosinistra sia sì egualitario ma – per esserlo – deve sacrificare strutturalmente una certa quota di libertà del cittadino (si pensi, ad esempio, all’“ingiustizia” – percepita come giusta – nella tassazione progressiva, per cui i benestanti pagano più tasse dei meno abbienti), così come il centrodestra è libertario, ma – per esserlo – deve rinunciare a una certa quota di uguaglianza sociale (oltre una certa soglia di pressione fiscale la redistribuzione del reddito viene percepita – anche dal ceto medio – come mero assistenzialismo). Senza bisogno di scomodare von Hayek e Friedman, quindi, il pendolo dell’arco costituzionale andrebbe ricollocato un po’ più a metà tra destra e sinistra.
La democrazia incompiuta
Infine, resta da chiederci – sulla scorta dell’auspicio di Luciano Violante in un articolo “pacificatore” apparso sul Corriere della Sera alla vigilia dell’ultimo 25 aprile – se in questo Paese riusciremo mai ad avere un grande partito conservatore di centrodestra e un grande partito democratico di centrosinistra con reciproca legittimazione morale, storica e costituzionale.
Una speranza senz’altro condivisibile che, però, non sopprime un’altra domanda: è ancora possibile un’espressione politica di centro?
Bobbio nel ‘94 con il suo aut-aut – destra o sinistra – aveva liquidato, forse troppo in fretta, l’esperienza quarantennale della Dc, che – nella logica dell’et-et – aveva saputo tenere insieme Scelba e Fanfani, Andreotti e Moro, Cossiga e Donat-Cattin. A prescindere dai sistemi elettorali, quindi, oggi è ancora possibile pensare di coniugare – in unico movimento – destra e sinistra?
Da più parti si dice che tra Meloni e Schlein esistono praterie: il problema, forse, sono i troppi cowboy solitari che ancora le solcano.
© Riproduzione riservata