Una lunga storia di successi è la dimostrazione che il Made in Italy ha un vantaggio competitivo di tipo strutturale.  

È quanto emerge dalla lettura del libro di Adriana Castagnoli, L'internazionalizzazione delle piccole e medie imprese (1995-2020): l'eccezione italiana (Interlinea, Novara), che è stato recentemente presentato in un seminario organizzato dal Centro Einaudi e dall'Unione Industriali di Torino.

La storica dell'economia -  editorialista del Sole 24 Ore e di Nuovo Mondo Economico - ha individuato un filo rosso che lega le dinamiche dell'export degli anni ‘80 a quelle che hanno consentito la ripresa dalla crisi finanziaria del 2008 e dall’attuale fase post-pandemica. Il leit motiv alla base del libro – di agevole lettura, con ricchezza di dati e di spunti interpretativi - è sostanzialmente legato alle economie esterne di cui godono le imprese dei settori più tipici del Made in Italy, grazie alla loro localizzazione all'interno dei distretti industriali.

Il caso italiano

Il ruolo del distretto industriale nel determinare la competitività delle piccole imprese è un argomento dibattuto da decenni tra gli economisti, con un ampio e intenso dibattito tra due diversi punti di vista.

Il primo è il filone di pensiero che segnala come lo slogan “piccolo è bello” non sia tanto un “claim” di marketing territoriale, quanto una verità che emerge dalle statistiche industriali, ove l'intensità dell'export, la numerosità di imprese esportatrici e i legami tra performance economiche e performance all’export premiano le imprese di dimensione media all’interno dei distretti.

Fonte: Istat

Come gestire l'innovazione?

In alternativa, un'altra scuola di economisti sottolinea invece la difficoltà che la media e la piccola dimensione avrebbero nel gestire le innovazioni disruptive, che negli ultimi decenni hanno modificato il modello di sviluppo del nostro capitalismo: le piccole imprese sono carenti di quelle risorse manageriali e finanziarie necessarie a gestire il cambiamento.

Dal ricco dibattito del seminario - disponibile sulla pagina You Tube del Centro Einaudi - emerge anche la possibilità di mediare tra le suddette tesi estreme, ipotizzando una terza via interpretativa, che aggiorna con innovazioni organizzative le potenzialità di crescita dei distretti industriali.

Le potenzialità delle reti d'impresa

Anna Ferrino è la testimone di una virtuosa strategia aziendale, ove lo spirito di intraprendenza internazionale dell'azienda, la voglia di emergere sui mercati internazionali, la necessità di ampliare la domanda di riferimento (avendo una forte specializzazione di nicchia) trovano supporto operativo nelle reti di imprese che la Ferrino spa ha “tessuto” nel corso tempo.

L’esperienza citata dall’imprenditrice ci induce a ritenere che le imprese che partecipano a “reti di impresa” - e cioè a accordi verticali lungo la filiera produttiva oppure a accordi orizzontali nello stesso segmento di prodotto – ottengano un vantaggio competitivo simile a quello di tipo distrettuale, che consente di guadagnare efficienza ed efficacia nelle strategie di internazionalizzazione.

I network informali

Si tratta di network informali nei cui confronti le associazioni imprenditoriali, ma anche i gestori delle politiche pubbliche per l'internazionalizzazione, quali Sace, Simest e Istituto per il commercio estero, devono interfacciarsi per sfruttare i maggiori volumi di export, di risorse manageriali e di investimenti che la rete genera rispetto al singolo imprenditore.

Del resto, l'attuale realtà post pandemica dei distretti industriali - che viene monitorata dall’Ufficio Studi di Intesa SanPaolo -  è profondamente diversa dalla storica visione degli anni ‘70 e ’80,  in quanto è connotata da robuste supply-chain al servizio di leader riconosciuti a livello internazionale, che diventano le “teste di filiera” che assemblano componenti e semilavorati in parte prodotti localmente, in parte importati dalle cosiddette Global Value Chain.

Le politiche per l'export 

Si tratta di una fotografia molto differente da quella tracciata a suo tempo da Becattini, Fuà e dagli altri economisti dei distretti industriali che per primi avevano studiato il forte legame positivo esistente tra caratteristiche del territorio e caratteristiche delle imprese presenti in esso.

Il seminario di presentazione del libro di Castagnoli ha offerto anche altri interessanti spunti in termini di politiche pubbliche in favore dell’internazionalizzazione. L’economista Giuseppe Russo, direttore del Centro Einaudi, ha evidenziato la necessità di spingere ulteriormente il nostro modello di sviluppo lungo la strada dell’internazionalizzazione commerciale. Sono ormai noti i benefici delle esportazioni e la ricchezza generata grazie alla domanda estera, tuttavia l’impatto delle attività del commercio internazionale non è ancora sufficiente a trainare in modo continuativo lo sviluppo dell’economia italiana.

Abbiamo la necessità di ampliare l’universo delle imprese esportatrici e di intensificarne le performance internazionali.

A questo proposito merita sottolineare il ruolo che le politiche pubbliche potrebbero avere per superare il limite sottolineato da Giuseppe Russo. Il basso numero di imprese che esportano rispetto al totale di imprese presenti in Italia emerge nelle analisi del CNR-IRCRES condotte sul database sulle imprese italiane: le imprese che esportano più di 1.000 euro all'anno sono circa 150mila a fronte di ben 5 milioni di imprese registrate alle Camere di Commercio. Mille euro all'anno, a scanso di equivoci, è il "minimo sindacale per ritenersi esportatore" (considerate che l'Istat definisce attiva un'impresa che ha almeno 500 euro di fatturato).

Anche se alle 150mila imprese direttamente esportatrici si dovessero aggiungere le imprese fornitrici dei capi filiera, quelle che esportano in modo indiretto tramite questi leader di settore e di distretto, ci si rende facilmente conto come il numero di imprese che riescono a superare le importanti barriere all'entrata sui mercati esteri sia ancora esiguo.  Anzi, è ancora più esiguo se consideriamo che le prime 5.000 imprese determinano ben i tre quarti del totale esportato.

Purtroppo, sembra che le politiche pubbliche a favore dell’internazionalizzazione favoriscano soprattutto le imprese che hanno già superato le barriere di tipo manageriale, finanziario, organizzativo, amministrativo che consentono di servire la domanda internazionale, mentre è molto difficile aiutare l’impresa che deve fare il primo passo all’estero.

Le barriere da superare

È pertanto auspicabile che si implementino nuove politiche che siano complementari a quelle attuali, perchè occorre stimolare soprattutto le imprese che vorrebbero ma non possono superare le barriere all'entrata nel commercio estero. Un progetto di ricerca presso CNR-IRCRES sta cercando di monitorare questa situazione individuando le imprese che esportano in modo saltuario, che non sono strutturalmente presenti sui mercati internazionali, che hanno una strategia di crescita estera in posizione subalterna e residuale rispetto allo sfruttamento della domanda nazionale. Si tratta di imprese che sono presenti solo in alcuni anni o per brevi periodi nella serie storica elaborata dal database del CNR, in modo altalenante, generalmente con valori di esportazione molto bassi, sia in termini assoluti che con riferimento al fatturato aziendale. Aiutare queste imprese, prenderle per mano, trasformare la strategia residuale in una coraggiosa crescita di medio periodo, rappresenta una grande sfida per le istituzioni preposte a far evolvere il nostro sistema produttivo.
E l’esempio fornito dalla Ferrino spa non può che essere un modello degno di imitazione.