La possibilità che le donne partecipino attivamente alla vita politica è un argomento da sempre molto dibattuto e viene oggi inserito nella piú ampia tematica del gender gap

“Per la luce del giorno, or dunque noi vogliamo oggi tentare il colpo audace d'impadronirci della cosa pubblica, per fare un po' di bene alla città. Che cosí non si vive e non si muore.”

È con questa frase che Prassagora, la protagonista della commedia di Aristofane (IV sec a.C.) “Le donne al parlamento”, incoraggia le sue compagne a subentrare agli uomini nel controllo del parlamento di Atene perché questi ultimi stanno conducendo la città in rovina.
Non sappiamo chi vincerà le prossime elezioni europee, ma abbiamo in ogni caso una fortissima probabilità che, in Italia e in gran parte d’Europa, saranno eletti più uomini che donne. La partecipazione attiva delle donne alla vita politica è dunque un argomento da sempre attuale e molto dibattuto e viene oggi inserito nella piú ampia macrotematica del gender gap.

A tal proposito, il Global Gender Gap Report, introdotto a partire dal 2006 dal World Economic Forum, fornisce un quadro che mostra l'ampiezza e la portata del divario di genere in tutto il mondo, fissando per ogni nazione uno standard sulla base di criteri economici, politici, di educazione e salute.
Il divario di genere caratterizza e domina la scena politica internazionale: in Europa, ad esempio, solo il 28% di coloro che hanno incarichi in corpi legislativi o in gabinetti di governo appartiene al genere femminile.
La sottorappresentazione femminile in politica può essere imputata ai numerosi ostacoli che si presentano nel percorso di carriera di questo settore. A causa di limiti di tempo dovuti alla cura dei propri figli, oppure per mancanza di un appoggio esterno di natura familiare o economica, le donne potrebbero infatti essere disincentivate a concorrere per i seggi. Ulteriori fattori dissuasivi possono essere inoltre l’esistenza di pregiudizi sessisti sia da parte degli stessi partiti, restii a candidare una donna in posizioni di rilievo, sia da parte degli elettori, restii a loro volta a votare candidati di genere femminile.
Per quanto riguarda i dati relativi all’odierna partecipazione femminile in politica, si può prendere ad esempio la situazione italiana, dove le donne sono ampiamente sottorappresentate: basti pensare che sebbene queste costituiscano il 51,4% della popolazione, nel nostro paese solo il 30% dei deputati è donna.
In 70 anni di Repubblica Italiana nessuna donna ha inoltre mai presieduto un governo e, dei 1500 incarichi di ministro durante il susseguirsi di ben 64 esecutivi, di cui 13 composti interamente da uomini, solo 78 sono stati ricoperti da esponenti di genere femminile. Non c’é dunque da stupirsi se, stando alla classifica stilata dal World Economic Forum, in materia di gender gap, il nostro Paese sia precipitato all’ottantaduesimo posto su 144.


Se si prendono in esame i dati internazionali (Figura 1), emerge chiaramente come da un lato vi siano paesi come la Finlandia, la Norvegia e la Svezia in cui la percentuale di ministri donna in una legislatura è arrivata vicino o, in alcuni casi, ha addirittura superato il 50%; dall’altro, nazioni come la Grecia, la Polonia e l’Irlanda dove tale valore supera a fatica la soglia del 20% o come la Slovacchia, dove, addirittura, in alcuni anni precipita sotto il 10%. Un caso esemplare é inoltre quello spagnolo, paese in cui non solo il trend di donne ministro é in crescita costante ma anche dove, con l’ultimo governo di Pedro Sànchez, queste ricoprono ben 11 ruoli contro i 6 detenuti dagli uomini.
Per quanto concerne invece la percentuale di donne in parlamento (Figura 2) i valori sono in media piú alti rispetto a quelli del grafico precedente.Finlandia, Norvegia e Svezia, come sempre, sono fra quelli in cui si registra la percentuale maggiore, accompagnate, e talvolta superate, da Islanda e Belgio. Al fondo della classifica, invece, vi sono Grecia, Cipro, Romania e Ungheria.
Sebbene la percentuale di donne parlamentari italiane sia in crescita (Figura 3), l’Italia naviga a vista, superando di poco la media europea e attestandosi, come detto, attorno al 30%.
Nel nostro paese, la carica di Presidente della Camera è stata affidata solo 5 volte su 17 ad una donna mentre, per quella di Presidente del Senato, abbiamo dovuto attendere fino al 2018 con la legislatura corrente.
Se si considerano invece i dati relativi al Parlamento Europeo, le cui elezioni avvengono a suffragio universale diretto dal 1979, nelle prime cinque legislature la percentuale di donne italiane è stata meno del 15% della nostra rappresentanza.

Per quanto riguarda invece il numero di ministeri rosa in Italia, il valore, in crescita dal 2006 con il Secondo Governo Prodi, ha registrato un picco sotto il Governo Renzi, per poi invertire rotta e decrescere, anche se lievemente, durante gli esecutivi successivi (Figura 4). Tuttavia, dicasteri “prestigiosi” e con portafoglio, come quello dell’Economia e quello delle Infrastrutture e Trasporti, ad esempio, non sono mai stati affidati ad una donna. Da tali dati emerge dunque come non sia ancora avvenuto alcun salto culturale nella gestione del potere: sebbene sia “garantito” un 30% base di rappresentanza, le donne non occupano nessun posto in “prima fila”.
Situazione non dissimile da quella dei board delle Authority, gli organi di garanzia con incarichi a nomina. Delle 11 principali Autorità, come ad esempio Consob, Bankitalia, il Garante per la Protezione dei Dati Personali e l’Autorità di Regolazione per Energia Enti e Ambienti, tra i 42 membri di Commissione, solo 13 sono donne e l’unica presidenza declinata al femminile, non a caso, è quella dell’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza.

Nella storia delle 20 regioni italiane, su un totale di 277 Presidenti di Regione, le donne sono state in totale solo 9, un valore di poco superiore al 3%. Di queste nove, due sono state elette in Umbria e in Friuli-Venezia-Giulia, entrambe con rinnovo di mandato, e le altre in Abruzzo, Lazio, Lombardia, Piemonte e Trentino-Alto Adige; facendo i conti risulta pertanto che su 20 regioni ben 13 non sono mai state governate da una donna.
A livello comunale, la percentuale di donne sindaco è invece in aumento nei nostri 7.954 comuni e, ad oggi, queste rappresentano il 13,6% (1083 - Figura 5) ; a tal proposito è tuttavia importante specificare che il 93% di loro guida un comune con un numero di abitanti inferiore a 15.000. Geograficamente parlando, la percentuale piú alta di sindaci donna si riscontra in Emilia Romagna mentre le piú basse in Campania e Sicilia. Il trend è positivo anche per quanto concerne il numero di “assessore” che in trent’anni è aumentato di ben il 368,5%, in quanto è passato dall’essere 1.459 nel 1986 a 6.834 nel 2016.
Con l’obiettivo di aumentare la presenza femminile nei consigli municipali dei comuni con più di 5.000 residenti nel 2012 è stata introdotta in Italia la legge 215. Questa norma prevede la possibilità di esprimere la doppia preferenza di voto purché i candidati siano di due generi diversi e che non vi siano nella stessa lista più di 2/3 di candidati dello stesso genere. Incentivare la partecipazione delle donne in ambito politico non solo è un provvedimento giustificabile per garantire l’equità nella rappresentanza di genere ma contribuisce contemporaneamente anche a creare modelli di comportamento e di ispirazione per altre donne, che sarebbero in questo modo incentivate a loro volta ad intraprendere una carriera politica. Recenti studi, come ad esempio “What Happens When a Woman Wins an Election? Evidence from Close Races in Brazil” di F. Brollo e U. Troiano, hanno inoltre evidenziato che le donne sono politici meno facilmente corruttibili e che dimostrano anche migliori capacità nel cooperare. Le donne inoltre pensano e investono a lungo termine, come messo in luce da “Let the voters choose women” di A. Baltrunaite, A. Casarico, P. Profeta e di G Savio: la spesa pubblica dei comuni in cui è stata applicata la 215/2012, comuni che quindi contano un maggior numero di donne tra le fila dei consiglieri, pur rimanendo complessivamente invariata, vede infatti un aumento degli investimenti in educazione e ambiente.

L’incremento del 18% della quota di donne nei consigli municipali conseguente all’applicazione della legge 215, dimostra dunque come le quote rosa, da sole insufficienti a ridurre significativamente il divario di genere, se affiancate dalla doppia preferenza, siano invece efficaci.
La norma 215/2012 è dunque un primo importante passo in avanti in materia di gender gap; la strada da percorrere per garantire una piena equità nella rappresentazione di genere in politica è tuttavia ancora lunga e, soprattutto, necessita di una sostanziale apertura culturale.
Come afferma Prassagora “bisogna affidare il governo alle donne. [...] Non stiamo a sprecare parole e affidiamo loro la città, senza chiederci cosa faranno. Semplicemente, lasciamo loro la possibilità di governare.”