Lo sventato attacco a Venezia e i precenti attentati all’aeroporto internazionale di Orly e nei pressi di Westminster a Londra riportano in evidenza la centralità del problema della sicurezza in Europa.

Il 18 marzo 2017 Zyed Ben Belgacem, un trentanovenne francese di origini tunisine, ha aggredito una pattuglia di militari a presidio dello scalo parigino cercando di rubare l’arma di servizio a un soldato. L’uomo, che in precedenza aveva sparato alla polizia durante un controllo di routine, è stato colpito a morte dai militari prima che potesse nuocere a qualcuno. Khalid Masood è, invece, l’attentatore di Londra che il 22 marzo 2017 ha portato a termine un attacco sul ponte di Westminster. Anch’egli ha precedenti penali e ha utilizzato una tattica semplice e conosciuta. Ha impiegato l’auto per investire alcuni passanti e creare caos e poi, una volta sceso dal veicolo, ha ferito a morte con un coltello un poliziotto di guardia alla Camera dei Comuni prima di essere ucciso.

Entrambi erano, come molti altri attentatori prima di loro, personaggi noti sia alle forze dell’ordine, a causa di alcune condanne relative a spaccio, rapine o crimini violenti, sia ai servizi segreti, in quanto sospettati di un percorso di radicalizzazione. Questo genere di attentatori sembra infatti seguire sempre il medesimo percorso. Atti di criminalità comune li portano all’arresto e quindi a periodi di reclusione. In prigione inizia il processo della loro radicalizzazione, che prosegue anche dopo lo scarceramento. A quel punto quello che era un “semplice” criminale diventa un pericolo per la società e un possibile miliziano del gruppo jihadista a cui il suo reclutatore è legato (generalmente, ma non sempre, ISIS) e si corre il rischio concreto che possa compiere presto o tardi atti di terrorismo.

La radicalizzazione e in modo specifico il problema del radicalismo islamico è dunque ormai un elemento centrale per la sicurezza in Europa ed è un problema alquanto spinoso oltre che complesso e articolato. In un recente libro intitolato “Allarme Europa” Stefano Piazza, esperto di sicurezza, ricostruisce dettagliatamente la situazione in Europa evidenziando, a partire dai dati dei servizi di sicurezza dei singoli paesi, le situazioni più o meno gravi. L’immagine che se ne trae non è particolarmente positiva. La radicalizzazione che si consuma sul suolo europeo produce due risultati diversi ma collegati: da un lato porta al fenomeno dei foreign fighters, ovvero giovani che dopo un forte indottrinamento partono per i fronti aperti del Medio Oriente o dell’Africa; dall’altro genera persone che restano in Europa con l’intendo di colpire in qualche modo l’Occidente.

Il merito del libro di Piazza è sicuramente quello di riuscire con un linguaggio semplice a descrivere un fenomeno che spesso viene trattato con superficialità e che molto raramente viene visto nella sua complessità e attraverso i legami che crea. La visione di insieme è dunque l’elemento distintivo che permette al lettore non solo di conoscere le cifre di un fenomeno grave e i suoi protagonisti, ma anche di farsi un’idea complessiva del radicalismo islamico in Europa e dei suoi legami con i flussi finanziari di alcuni Paesi. Senza i soldi provenenti da Arabia Saudita, Qatar o Turchia - è bene ricordarlo - il fenomeno non potrebbe infatti avere lo stesso impatto sociale.

Uno dei casi italiani più noti di radicalizzazione islamica è quello della moschea di viale Jenner a Milano da cui furono intercettate telefonate per Ayman al Zawahiri, il braccio destro di bin Laden. Ma l’Italia è stata anche punto di passaggio per i Balcani, dove la radicalizzazione è stata ed è piuttosto forte. Ci sono poi i casi di foreign fighters italiani partiti da Genova o Brescia. Per esempio, Piazza ricostruisce il percorso di Giuliano Delnevo radicalizzatosi nel 2008 e poi partito e morto come foreign fighter in Siria nel 2013.

A livello europeo il caso certamente più noto è quello del Belgio, che è il Paese con il tasso pro capite di foreign fighters più elevato del continente. Il fenomeno, però, coinvolge un po’ tutti gli stati: Regno Unito, Francia, Germania, così come le piccole e “tranquille” Svezia e Danimarca. Nemmeno la “neutrale” Svizzera, “forte” di una più restrittiva politica migratoria, è immune da queste problematiche. Sono circa 76 i foreign fighters svizzeri documentati nel libro di Piazza. Un numero consistente in proporzione alla popolazione di cui 21 vengono considerati morti, e di altri 10 si sono perse le traccie dopo il loro rientro. In più, pare che il Consiglio Centrale Islamico Svizzero (CCIS o IZRS) fondato nel 2009 non solo abbia contatti e riceva finanziamenti dal Qatar, ma abbia anche ripetutamente organizzato incontri in cui esponenti di spicco del salafismo internazionale sono stati invitati a parlare.

Il tema del radicalismo in Europa non è una novità storica anche se i numeri odierni rischiano di essere particolarmente allarmanti. A fine anni novanta il politologo Gilles Kepel in Jihad. Ascesa e declino tracciava un quadro dettagliato dell’Islam e del processo di radicalizzazione in Europa, il cui inizio viene fatto risalire alla Guerra del Kippur del 1973, quando l’islamismo conservatore di stampo saudita inizia a penetrare nel continente. Infatti, in quel momento gli immigrati musulmani, per effetto dell’aumento della disoccupazione causata dall’inflazione e dall’incremento del prezzo del petrolio, si trovarono spesso a dove vivere senza lavoro e in società di cui non condividevano i valori. In questo contesto instabile senza punti di riferimento si è così andata sviluppando una nuova identità islamica. Gran Bretagna, Francia e Germania dell’Ovest erano i paesi più coinvolti e nello stato tedesco addirittura operavano (come nell’Europa di oggi) confraternite turche bandite dallo stesso Governo turco. I figli di questi migranti andarono a costituire la prima gioventù urbana europea povera di origine musulmana, che è oggi strettamente collegata ai problemi di radicalizzazione di cui si è detto.

La questione è alquanto complessa, anche perché è impossibile avere dati sicuri. Si calcola che ci siano circa 5,000 foriegn fighters di origini europee che combattono in Siria e Iraq. Di questi circa il 15-20% sono morti in battaglia; il 50% sta ancora combattendo; ma il numero che preoccupa è il restante 30-35% di combattenti radicalizzati (ovvero circa 2.000 persone) che pare essere tornato in Europa. Il rischio connesso con i foreign fighters ritornati in Europa è evidente guardando agli attacchi di Parigi del novembre 2015 o a quelli di Bruxelles del marzo 2016. E come ha giustamente sottolineato il coordinatore per l’antiterrorismo dell’EU Gilles de Kerchove, non solo questa tipologia di minaccia è destinata a perdurare per i prossimi anni, ma questi combattenti sono addestrati all’uso di esplosivi, armi da fuoco, hanno esperienza diretta dei campi di battaglia (un aspetto essenziale quando ci si trova poi a maneggiare un’arma, magari di fronte alle forze di sicurezza, e si devono impiegare movimenti tattici) e sono stati indottrinati da imam e altre figure legate ai gruppi radicali all’ideologia islamista.

Che il problema dei foreign fighters sia strettamente correlato al tema della radicalizzazione e sia centrale per l’Europa è testimoniato non solo dai problemi di ordine pubblico e sociale che il libro di Piazza mette in luce, ma anche dal fatto che il risultato è un impatto significativo del radicalismo islamico in Europa. Infatti, secondo un recente studio, i musulmani che partono dall’Europa per andare a combattere per lo Stato Islamico sono circa un quinto del numero complessivo dei combattenti, che per il resto è composto da miliziani provenienti da Paesi africani o mediorientali e, quindi, di tradizione e religione islamica. E proprio qui risiede il fatto più rilevante: i foreign fighters europei sono sì una minoranza, ma se si comparano le popolazioni di provenienza le proporzioni risultano ribaltate. Attualmente, infatti, la popolazione europea musulmana è composta da circa 20 milioni di individui che rappresentano una piccolissima percentuale del circa miliardo e mezzo di persone musulmane nel mondo. Ciò significa che i miliziani provenienti dall’Europa rappresentano una netta maggioranza in proporzione a quelli provenienti dal resto del mondo.

Nei processi di radicalizzazione che avvengono in Europa giocano un ruolo centrale Facebook, Youtube e altri social network comunemente diffusi, oltre ai più tradizionali siti web; mentre app, come Whatsapp o Telegram, sono utilizzate da quanti si radicalizzano per organizzarsi e mantenere i contatti con i loro sodali in Medio Oriente. Un altro problema è quello inerente i trascorsi nelle forze armate europee. Un esempio è quello di Abu Suleyman, marocchino nato a Rabat nel 1989, che ha trascorso la sua adolescenza a Lunel, una piccola città nel sud della Francia da cui sono partiti circa 25 foreign fighters di ISIS. Varie fonti lo considerano la mente dietro gli attacchi di Parigi Parigi del 2015 e di Bruxelles del 2016 oltre che uno degli elementi chiave delle operazioni all’estero di ISIS. Ma ciò che lo rende diverso è che nel novembre 2008 Abu Suleyman si era unito alla Legione straniera francese e ha anche partecipato a un turno di servizio di sei mesi in Afghanistan. Questo aspetto è preoccupante sia perché, nel caso non fosse un caso isolato, mina alla base la fiducia del decisore politico verso le Forze Armate e la stessa coesione tra i quadri militari; sia perché si avrebbero jihadisti perfettamente addestrati da un punto di vista militare e potenzialmente in grado anche di conoscere dettagli cruciali di come operano le forze di sicurezza occidentali.

La rete con cui i jihadisti riescono a catturare nuove reclute, a indottrinarle e a trasformarle in pericolosi elementi all’interno delle nostre società, oltre che veri e propri soldati nei fronti aperti dello Stato Islamico in Medio Oriente e non solo è uno degli aspetti centrali su cui riflettere sia in termini di sicurezza, ovvero come smantellare quella rete e come contenere gli elementi radicalizzati, sia in termini di politica, ovvero sviluppare approcci che permettano di calmierare il flusso migratorio, da un lato, e che portino a una migliore integrazione, dall’altro. Molenbeeck in Belgio non è un caso isolato ed è proprio l’emblema di come le politiche sinora sperimentate non abbiano funzionato e di come serva una drastica e repentina inversione di marcia che metta la legalità al primo posto.

Un’ultima riflessione doverosa riguarda la sconfitta di ISIS  a seguito dell’operazione a Mosul e di quelle in Siria. A questo riguardo, bisogna tenere a mente che considerare l’attacco di Londra, e altri similari, come semplici “colpi di coda” di un Califfato ormai prossimo alla sconfitta, è un pericoloso errore. ISIS sta certamente perdendo il territorio che controllava, ma ciò non influisce sull’ideologia che lo sostiene e sulla rete di connivenze, supporti logistici ed economici di cui gode lontano da Mosul o Raqqa. Anzi, la perdita dei suoi territori rischia di portare a insistere maggiormente su attacchi più diffusi e difficili da prevedere, sfruttando proprio la rete della radicalizzazione.