Sono giorni molto importanti per il vasto mondo della proprietà intellettuale, sia in Italia sia in Europa, con particolare riferimento alla sua protezione su internet. Nel nostro Paese è entrato in vigore il 31 marzo il nuovo regolamento Agcom, che tra le altre cose prevede la possibilità di imporre ai provider (le aziende fornitrici dell’accesso a internet) di bloccare completamente l’accesso a un sito che si sospetta contenga materiale protetto da diritto d’autore in violazione della normativa di settore. Appena un paio di giorni prima, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea si era pronunciata sull’argomento, dando un sostanziale semaforo verde a norme come quelle italiane, in un caso sorto originariamente in Austria. Ma la comunità degli internauti non ci sta.
1. Nel caso UPC Telekabel Wien v. Constantin Film Verleih e Wega Filmsproduktionsgesellschaft (C-314/12), la Corte di Giustizia ha affrontato una controversia sorta tra due società cinematografiche e un internet provider. Le due società avevano infatti ottenuto dai giudici austriaci un’ingiunzione nei confronti della UPC Telekabel, con cui si imponeva a quest’ultima di impedire ai propri utenti l’accesso a un sito dove si potevano illegalmente vedere e scaricare due film su cui la Contantin Film e la Wega vantavano i diritti d’autore.
Il provider impugnò l’ingiunzione, e il caso giunse fino alla Corte Suprema austriaca, che ha chiesto alla Corte di Giustizia di valutare se, come sostenuto dal provider, essa era incompatibile con le norme europee in materia di proprietà intellettuale e con i loro diritti fondamentali.
Ma i giudici europei hanno ritenuto che, anche in assenza di qualunque rapporto tra provider e utenti che scaricano o visualizzano materiale protetto da diritto d’autore sul sito incriminato, nonché con i gestori del sito, l’ingiunzione fosse ammissibile alla luce del diritto europeo (senza neppure dover provare che i clienti del provider consultano o scaricano realmente il materiale coperto da diritto d’autore).
Essi non hanno ravvisato incompatibilità né con la direttiva europea in materia di diritto d’autore, che in effetti prevede abbastanza chiaramente la possibilità di adottare queste misure; né con i diritti fondamentali dell’ordinamento UE; né con la libertà d’impresa degli internet provider; né con la libertà di informazione dei loro clienti.
Tutto ciò, «alla duplice condizione che le misure adottate dal fornitore di accesso non privino inutilmente gli utenti di internet della possibilità di accedere in modo lecito alle informazioni disponibili e che tali misure abbiano l’effetto di impedire o, almeno, di rendere difficilmente realizzabili, le consultazioni non autorizzate di materiali protetti e di scoraggiare seriamente gli utenti dal consultare i materiali messi a loro disposizione in violazione del diritto di proprietà intellettuale. La Corte precisa, dunque, che gli internauti e il fornitore di accesso ad internet devono poter far valere i propri diritti dinanzi al giudice. Spetta alle autorità e ai giudici nazionali verificare se tali condizioni siano soddisfatte».
La palla, quindi, viene rimbalzata parzialmente sul campo dei singoli ordinamenti nazionali, che hanno il compito da un lato di evitare che il blocco di un sito (di per sé ammissibile) venga applicato in misura sproporzionata, tale da incidere sulla possibilità degli utenti di navigare liberamente sulla rete internet, e dall’altro di consentire che internet provider e utenti abbiano accesso a un giudice per contestare l’ingiunzione.
2. Proprio su questi aspetti si concentrano alcune delle critiche che sono state mosse in Italia al nuovo Regolamento in materia di tutela del diritto d’autore sulle reti di comunicazione elettronica e procedure attuative, emanato nel dicembre scorso dall’Autorità garante per le Comunicazioni, e in vigore dal 31 marzo 2014.
Il Regolamento contempla anch’esso la possibilità per i titolari dei diritti di sfruttamento economico su opere protette da diritto d’autore di chiedere che, in caso di mancata rimozione da un sito di materiale (della più ampia natura) che si assume essere in violazione di copyright, gli internet provider siano obbligati a oscurare l’accesso a quel sito (pena multe molto severe).
Il procedimento si svolge tutto davanti all’Autorità, che diventa così arbitra della Rete, venendo dunque (auto)investita di un potere estremamente elevato. Addirittura, in certi casi essa può ordinare la cancellazione di un sito senza contraddittorio in appena tre giorni.
Come clausola finale, il Regolamento prevede naturalmente il diritto di impugnare le decisioni dell’Autorità davanti al giudice amministrativo, ma resta tutto da verificare se questa possibilità sia un rimedio sufficiente alla luce del diritto europeo, o se, come pare probabile, possano verificarsi casi in cui la tutela giurisdizionale giunga con tempi e modalità tali da costituire per il ricorrente una vittoria solo sulla carta, inidonea a garantire una protezione effettiva della libertà economica e di quella d’informazione, nella misura richiesta dalla Corte di Giustizia dell’UE.
Inoltre, il blocco integrale di un sito, a fronte di una violazione circoscritta sembra una misura in grado di incidere in modo fortemente limitativo sulla libertà di informazione degli internauti: è vero che il Regolamento impone all’Autorità di informarsi ai principi «di gradualità, di proporzionalità e di adeguatezza», ma basterà questo a soddisfare le condizioni poste dai giudici europei?
Occorre considerare, infatti, che la vaghezza del Regolamento lascia spazio in teoria al blocco di popolarissimi social network, nel caso – che invero si verifica in modo costante ogni giorno – essi vengano impiegati per la condivisione illegale di materiale protetto da diritto d’autore. Le segnalazioni di violazioni possono essere quindi moltissime per questi siti, ma chiunque abbia una conoscenza anche solo superficiale della loro operatività sa che avrebbe dei costi improponibili per i loro gestori esercitare un controllo capillare su tutto il materiale che viene condiviso nelle loro pagine.
Del resto, la recente sentenza con cui la Cassazione ha definitivamente assolto i manager di Google nel noto caso Vividown prendeva correttamente atto di questo dato di realtà, mentre l’Agcom sembra averlo trascurato, senza contare che non vi sono sanzioni per le “false segnalazioni”, ovvero le segnalazioni di violazioni che poi si rivelano infondate, per cui non vi è un particolare deterrente alla segnalazione a raffica, con tutti gli scenari che si possono immaginare di attori senza scrupoli che cercano di mettere in difficoltà dei concorrenti accusandoli falsamente di violazioni, senza rischiare particolari sanzioni.
3. Sembrano quindi aver ragione quegli esperti e quelle associazioni che denunciano i rischi che porta con sé il nuovo Regolamento Agcom. Naturalmente, sarà possibile che il Garante adotti un sano self-restraint e si orienti ad un’applicazione ragionevole della normativa. Ma le nuove regole rimangono comunque criticabili perché danno all’Agcom il potere di comportarsi da censore, e buttar via davvero molti bambini con l’acqua sporca (che secondo alcune autorevoli opinioni non è neppure tale) delle violazioni di copyright.
Da questo punto di vista, la normativa italiana si pone in tensione con i principi delineati, già con maglie piuttosto larghe ed elastiche, dalla Corte di Giustizia UE. Per chi ha a cuore la libertà di internet, non resta che fare affidamento intanto su un efficace controllo giurisdizionale, che sanzioni senza esitazioni gli eventuali eccessi dell’Autorità in fase applicativa, e sottoponga ad adeguato scrutinio le norme stesse nelle opportune sedi; d’altro canto, non è mai troppo tardi per l’Autorità stessa per fare un passo indietro sulle misure più controverse. Lo prevede lo stesso Regolamento: «L’Autorità si riserva di rivedere il presente regolamento sulla base dell’esperienza derivante dalla sua attuazione nonché alla luce dell’innovazione tecnologica e dell’evoluzione dei mercati, sentiti i soggetti interessati». Che revisione sia.
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