E così adesso abbiamo il Cortellum. Una legge elettorale scritta dalla Corte Costituzionale che – come si deduceva dal comunicato stampa del 3 dicembre – è una proporzionale pura, con soglia di sbarramento nazionale del 4 per cento alla Camera e regionale dell’8 per cento al Senato, più per entrambe le Camere il voto di preferenza (preferenza unica). I giuristi si eserciteranno sull’analisi della sentenza, sul suo grado di innovatività (elevato, a prima vista), sulla bontà del risultato. Qui proponiamo qualche prima considerazione, sul piano tecnico (che tipo di legge ha davvero scritto la Corte e risponde alle esigenze che la Corte stessa dichiara di voler soddisfare?), sul piano istituzionale (come modifica l’equilibrio dei poteri?) e sul piano politico (detta molto semplice: a chi giova?).
1. Sul piano tecnico. Qualsiasi legge elettorale rappresenta, in una certa misura, una forzatura, una costruzione arbitraria, nel senso che il meccanismo di trasformazione dei voti in seggi necessariamente fa sì che i voti, alla fine, non pesino proprio tutti allo stesso modo. Questo è evidentissimo nei sistemi maggioritari a collegio uninominale (tipico il caso inglese, dove i terzi partiti – classicamente, i liberali – sono sottorappresentati, a meno di non avere un forte ed esclusivo radicamento territoriale), ma vale anche per il proporzionale classico, quello italiano della Prima Repubblica, in cui comunque i seggi “costavano” in voti molto più ai partiti piccoli che ai partiti grandi.
Questa forzatura più o meno marcata è ineliminabile, e lo è perché la legge elettorale risponde a due distinte esigenze: una è quella della rappresentanza, l’altra è quella della governabilità, quella cioè di rendere possibile la formazione di una maggioranza e di un governo dopo le elezioni. A seconda delle situazioni e dei momenti storici si è fatto pesare più la prima o più la seconda: tipicamente, in paesi dove residuano aspri conflitti e la fiducia reciproca nonché la coesione civica sono relativamente scarse (prevale il timore che il vincitore possa volere “stravincere” una volta al governo) si ritiene sia più adatta la proporzionale (l’Italia del secondo dopoguerra era più meno in questa condizione). In paesi invece dove è radicata la cultura dei limiti al potere dei governi e delle maggioranze – Inghilterra e Stati Uniti, per esempio – prevale l’esigenza di governabilità, e dunque si hanno sistemi elettorali fortemente maggioritari. In un paese “intermedio” come la Francia – culture politiche divise, ma tradizione di un’amministrazione nazionale centralizzata ed efficiente – il problema è stato risolto con il doppio turno: la prima volta voti chi ti piace di più, al ballottaggio chi ti dispiace di meno.
Nel giudizio sul Porcellum la questione della rappresentanza si poneva sotto due profili. L’uno, le dimensioni del premio di maggioranza al vincitore (alla Camera il 60 per cento dei seggi veniva attribuito alla lista che avesse preso anche solo un voto in più sul piano nazionale; al Senato e su base regionale la lista che avesse preso un voto in più conseguiva il 55 per cento dei seggi in palio nella regione); l’altro, il fatto che le liste bloccate più la possibilità di candidature plurime in diverse circoscrizioni più la lunghezza delle liste medesime impedivano all’elettore di scegliere l’eletto, e consentivano ai partiti, nel definire l’ordine di lista e nel gioco successivo delle opzioni, di “nominare” i deputati.
La Corte ha abrogato il premio di maggioranza giudicandolo irragionevole in quanto sproporzionato, e introdotto la preferenza unica alla Camera come al Senato.
Prima conclusione: su un punto cruciale – quello dell’equilibrio, del peso relativo delle opposte esigenze di rappresentanza e i governabilità – la Corte ha privilegiato, e in maniera determinante, la prima: infatti, se si votasse con la legge prodotta dalla sentenza si tornerebbe a coalizioni e governi che si formano in Parlamento dopo le elezioni e che gli elettori non possono conoscere né valutare in anticipo.
Seconda conclusione: è molto dubbio che la preferenza unica ripristini il legame fra elettore ed eletto in presenza di candidature plurime (non abolite perché neppure impugnate) e di circoscrizioni elettorali grandi e dunque liste lunghe. Il gioco delle opzioni ex post resta comunque possibile, basterà avere in lista un numero sufficiente di candidati “forti” e capaci di conquistare un buon bottino di preferenze in più di una circoscrizione, e il gioco delle opzioni ricomincia. A salvarsi sarebbero esclusivamente i candidati con dietro “macchine” potenti di raccolta del consenso e, si presume, dotazioni finanziarie consistenti.
Terza conclusione: ci si può pertanto ragionevolmente chiedere se gli obiettivi dichiarati della pronuncia – riequilibrare il peso relativo delle esigenze di rappresentanza e di governabilità e ripristinare il legame fra elettore ed eletto – siano poi, nei fatti, realmente conseguiti.
E questo anche senza voler affrontare la questione (di cui pure in qualche modo la sentenza si occupa) di come si possa costringere due corpi elettorali diversi – quelli di Camera e Senato – a fornire due risultati se non eguali simili (il che è indispensabile fintanto che la fiducia dev’essere votata da entrambe le Camere) in un momento in cui il voto si frattura su base non solo territoriale ma anche e soprattutto generazionale. C’è qui, fra parentesi, una ulteriore stortura: è giusto che chi ha più di 25 anni abbia due voti? Qui davvero ci sarebbe una ragione sostanziale di diseguaglianza nel diritto di voto, che se sessant’anni fa per ragioni culturali poteva avere un senso oggi appare quanto meno discutibile. Semmai, e considerato che si vota “per il futuro”, sembrerebbe più ragionevole che chi ha più futuro – i più giovani – pesi più di chi ne ha di meno (i più anziani).
2. Sul piano istituzionale. La Corte si è premurata di precisare che ha scritto queste norme perché una legge elettorale ci deve pur essere, tale da consentire che, in caso di necessità, si possa sempre e comunque votare, e che il Parlamento è libero di cambiare le regole prodotte dalla sentenza (e ci mancherebbe!). Le osservazioni critiche sul defunto Porcellum contenute nella pronuncia hanno dato il via a una serie di interpretazioni su quali leggi elettorali la Consulta considererebbe accettabili e quali no: Stefano Ceccanti, per esempio, si è affrettato a chiarire su Huffington Post che tutti e tre i modelli proposti dal segretario del Pd Matteo Renzi starebbero all’interno dei paletti segnati dalla Corte.
Il diavolo però, com’è noto, si nasconde nei dettagli: e per capire quale sia davvero il sentiero segnato dalla Consulta e quanto sia largo (o stretto) ci vorrà ancora un po’ di tempo e di letture attente. Una cosa in prima battuta sembra tuttavia di poterla dire: pare difficile, dopo questa sentenza, uscire da un impianto di tipo proporzionalistico, sia pur corretto da premi di maggioranza (quanto grandi, o quanto piccoli, potranno/dovranno essere per venire considerati “ragionevoli”?). Ci si può fondatamente chiedere se una decisione di questa rilevanza spettasse davvero alla Corte e non invece al Parlamento (il quale peraltro, e a onor del vero, ha avuto tutto il tempo per provvedere e non lo ha fatto) o al popolo sovrano mediante referendum (e questo la Corte lo aveva in pratica negato in alcune pronunce precedenti).
Nella sostanza, e sempre sul piano istituzionale, pare evidente che o si affronta il tema delle riforme istituzionali – fine del bicameralismo perfetto, ricalibratura dei poteri di Presidente della Repubblica, Camere elettive, governo e magistratura – o non se ne esce. A colpi di leggi elettorali e di sentenze che le modificano si aggiunge solo confusione a confusione, slabbrature a slabbrature.
3. Sul piano politico. Che cosa può accadere, d’ora in avanti? E a chi giova, questa legge? Cominciamo dal secondo punto: giova senza dubbio ai proporzionalisti di ogni colore, i quali quando – e se – dai talk show si passerà al voto su una legge elettorale nuova troveranno nella sentenza appigli a difesa delle proprie posizioni. Giova perciò probabilmente soprattutto ai sostenitori della necessità delle larghe intese, della stabilità, della continuità. E danneggia chi – Matteo Renzi in primis – da questa tenaglia prova ad uscire. Per altro verso, rende difficile a questo Parlamento sopravvivere una volta scritta una nuova legge: ma paradossalmente gli rende difficile sopravvivere anche – e perfino di più – se questa nuova legge non riesce a scriverla. E dunque rappresenta una spinta in direzione di elezioni a scadenza abbastanza ravvicinata – la scelta preferita, sembrerebbe, proprio dello stesso Renzi.
Quale delle due spinte prevarrà, e in che forma, è davvero troppo presto per dirlo. In ogni caso, lungo la strada ci sono ancora ostacoli rilevanti di tipo tecnico – sembrerebbe che qualche adeguamento normativo/regolamentare sulla questione della preferenza unica la sentenza comunque lo richieda perché si possa tornare a votare, e in prima battuta non si capisce bene che fine faranno gli eletti per effetto del premio di maggioranza, la cui “proclamazione” non è ancora avvenuta per tutti da parte delle competenti Giunte di Camera e Senato.
In conclusione: la sentenza dà l’idea di una decisione fortemente politica, probabilmente anche contrastata, in cui sotto la copertura della scelta tecnica si è deciso – e molto! – nella sostanza. Il cerino adesso è in mano al Parlamento. Ma è un cerino che scotta, forse addirittura una bomba a orologeria. Ce n’era bisogno? È davvero questa una soluzione al problema? È lecito dubitarne.
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