Se era una facile profezia quella che il risultato delle consultazioni politiche dello scorso febbraio avrebbe spaccato il Pd, era purtuttavia difficile immaginare che per arrivare a questo sarebbero bastati i tre giorni – da giovedì 18 a sabato 20 aprile – dell’elezione presidenziale.
1. Prima di ragionare su questo passaggio, però, vale la pena fare un’osservazione più generale. Nei due mesi trascorsi da febbraio, il partito beneficiario del premio di maggioranza ha più volte rivendicato, per bocca del suo segretario Pierluigi Bersani, il dovere e soprattutto il diritto di individuare prima una maggioranza per il governo e poi un nome per la più alta magistratura dello stato.
Il primo obiettivo è stato mancato, e non lo si è mai voluto esplicitamente riconoscere: tanto che, dopo che Bersani era andato a riferire a Napolitano, appunto, del fallimento, la segreteria del Pd si è affrettata a diramare un grottesco comunicato stampa, in cui si puntualizzava che il segretario non aveva rinunciato all’incarico.
Mancato il primo, si è passati a occuparsi del secondo obiettivo, con la stessa apparente sicurezza, o per meglio dire a questo punto, sicumera. Con quali conseguenze sul partito, lo vedremo. Ma quel che conta dire adesso è che la superficialità con cui il Pd ha affrontato la questione, la follia con la quale nomi e proposte sono state buttate sul tavolo e bruciate, la sensazione che ci si andasse a cacciare in una via senza uscita, hanno procurato per tre giorni una sorta di crisi di ansia collettiva agli italiani. Alcune centinaia o migliaia di persone hanno espresso preoccupazione o rabbia in piazza, qualche centinaio di migliaia o qualche milione lo ha fatto sulla rete. Tutti gli altri hanno guardato la tv, ascoltato la radio, parlato con i parenti, gli amici o i conoscenti al bar, cercando qualche rassicurazione o qualche spiegazione. Napolitano ha provato a fornire l’una e l’altra lunedì pomeriggio in parlamento, accettando la rielezione. Dai partiti – e segnatamente dal Pd – è venuto soltanto un senso di impotenza, e di confusione assoluta. Questo andrà ricordato, perché in un momento di difficoltà economica come è questo – il peggiore, si dice in coro, dal dopoguerra – una classe politica decente avrebbe avuto almeno il dovere di non aggiungere allo stress e alle preoccupazioni che ciascuno individualmente avverte anche l’ansia assoluta per le sorti collettive; il dovere, diciamo così, di non regalare agli elettori propri e altrui tre giorni di crisi di nervi.
2. Veniamo invece a quello che è accaduto dentro al Pd. In realtà, ciò che l’elezione presidenziale ha certificato è che il Pd non ha un’idea condivisa né su che cosa vuole essere in futuro, né su che cosa è nel presente. Le tre candidature bocciate riassumono appunto le tre ipotesi finora prospettate sulla natura del partito. E infatti:
- La bocciatura della candidatura di Franco Marini, ex presidente del Senato, ex segretario Cisl, ex segretario del Partito Popolare, ha significato bocciare l’idea del Pd come sommatoria dei partiti del cosiddetto arco costituzionale della prima repubblica, con i suoi difetti – la correntizzazione congenita e il manuale Cencelli – ma anche con i suoi pregi, l’idea principalmente che occorre responsabilità di governo, e che questa richiede in caso di necessità la disponibilità e anzi la volontà di trovare accordi con gli avversari.
- La bocciatura della candidatura di Romano Prodi ha significato respingere l’idea del Pd come partito democratico “all’americana”, a vocazione maggioritaria, in cui le diverse culture di origine si fondono, il partito cerca esplicitamente consensi fuori dal perimetro originario dei suoi sostenitori e quando è in maggioranza funziona da perno del sistema, costruendo eventualmente le alleanze necessarie: è la linea, appunto, che da Romano Prodi passando per Walter Veltroni arriva a Matteo Renzi.
- Infine, il rifiuto di sostenere la candidatura di Stefano Rodotà, proposta dal Movimento 5 Stelle, appoggiata da Sel e tambureggiata come salvifica sul web e su piazza Montecitorio, ha significato il rifiuto della identità di partito di “sinistra-sinistra”, variamente riecheggiata lungo tutto la storia del Pd e da ultimo riproposta dalla Cgil e in forme diverse da Fabrizio Barca.
Tutto questo, in un clima di isteria collettiva, di agguati di aula, di rinfacci e accuse rabbiose sul dopo. Parlare di scissione possibile, a questo punto, è improprio. Non di scissione infatti potrebbe trattarsi, se a questo si arriverà, ma di frantumazione per implosione.
3. Qualche osservazione ancora su questi tre giorni di follia: una delle cose venute fuori con chiarezza è l’immaturità politica di questo parlamento, incapace di reggere alla responsabilità e di far fronte al dissenso. È vero che dall’Italia viene la richiesta di cambiare; è vero che la sofferenza della crisi chiede risposte e ascolto. Invece di risposte, però, c’è stata la paralisi decisionale; invece dall’ascolto, il disorientamento di fronte a chi in quel momento gridava più forte, e l’incapacità di trovare una soluzione innovativa che non fosse marchiata dalla partigianeria; invece del cambiamento, l’incoronazione di un presidente quasi novantenne, di cui sono ammirevoli “disciplina e onore” (art. 54 della Costituzione), ma a cui ci si affida non per convinzione bensì per disperazione.
E questo non per minimizzare la difficoltà di quelle intese e di quella pacificazione chieste con veemenza da Napolitano: che potrebbero in qualunque momento essere rimesse in discussione – lo ha ricordato Francesco Verderami sul “Corriere della Sera” martedì 23 aprile – dalla insostenibile posizione giudiziaria di Silvio Berlusconi.
In mezzo alla bufera, sono arrivate le elezioni regionali in Friuli: vinte dal Pd – e in particolare dalla candidata presidente Debora Serracchiani (parlamentare europea, poco più che quarantenne e renziana) per una manciata di voti contro il presidente uscente di centrodestra. Con un crollo della partecipazione al voto, che ha superato di poco il 50 per cento, e una sonora batosta al candidato del Movimento 5 Stelle, che ha raccolto il 19 per cento; e soprattutto al Movimento stesso, passato dal 27 per cento delle politiche al 13 delle regionali. Il che dà un’idea, da un lato, della velocità con cui l’elettorato italiano in questo momento è pronto a consumare proposte e partiti; dall’altra, di quanto sia esile il filo che lega rappresentanti e rappresentati.
Di questo, tuttavia, i partiti sembrano avere scarsa coscienza. Per dire di che cosa Napolitano si troverà di fronte, basti citare un mirabile scambio di opinioni avvenuto domenica 21 sul blog e sulla pagina Twitter di Matteo Orfini, uno dei cosiddetti “giovani turchi” del Pd. Scrive Orfini sul blog, in un post in cui nega l’accusa che il voto a Napolitano preluda alla formazione di un governo di larghe intese: “Io ho votato un presidente della Repubblica. E quel voto non impegna né me né il Pd al sostegno di un governo col Pdl. Questo lo abbiamo chiarito prima del voto e lo ripeto ora. Al governo con Berlusconi ero e resto contrario”. Su Twitter gli rispondono: “Il voto per Napolitano non impegna il Pd a un governo con il Pdl. Ok siamo a scherzi a parte. O no?”. Orfini conferma che “un segretario dimissionario non ha garantito” e non poteva garantire nulla al presidente. E un altro tweet conclude basito lo scambio: “Ok, ma chi lo dice a Napolitano?”.
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