Contano di più i documenti ufficiali e le azioni di governo, oppure Twitter, le dichiarazioni a microfono spento e le interviste a giornali e Tv? Questa domanda, solitamente poco importante, diventa estremamente rilevante per capire i rapporti fra gli Stati Uniti e la Nato.
Mai come nell’era dell’amministrazione Donald Trump si è vista una simile divergenza fra le dichiarazioni “private” e gli atti pubblici del presidente della prima potenza mondiale. Sempre che per Trump esista una sfera privata. La raccolta delle dichiarazioni “private” di Donald Trump sull’Alleanza Atlantica permette di costruire una narrazione dei fatti che è molto presente sui media, fin dai primi giorni dell’elezione: gli Usa si sono stancati degli alleati europei, perché li considerano sleali e scrocconi, quindi meglio fare accordi diretti con la Russia saltando a piè pari gli interessi di sicurezza della Nato europea.
Questa narrazione è stata rafforzata dall’ultimo vertice NATO di Bruxelles, e risalta in tutti i tweet più significativi del presidente. Come quello in cui si chiede quanto la Nato sia ancora un bene per gli Stati Uniti, dal momento che la Germania spende miliardi di dollari per comprare gas alla Russia (un’accusa di ipocrisia), solo 5 paesi su 29 rispettano gli impegni finanziari per la difesa comune e gli Usa pagano per la difesa europea ricevendo in cambio la perdita di miliardi di dollari in una guerra commerciale. Questo tweet si conclude con l’esortazione rivolta agli alleati affinché paghino il loro 2% di spese della difesa, in rapporto al loro Pil, IMMEDIATAMENTE (maiuscolo nel testo) e non entro il 2025. Il testo contiene una data sbagliata, segno di voluta o meno distrazione, perché la scadenza entro la quale tutti i membri della Nato devono pagare almeno il 2% del Pil in spese per la difesa è stata fissata al 2024, proprio a conclusione del summit di Bruxelles. In un altro tweet, un giorno prima del meeting, Trump accusa i paesi membri dell’Alleanza non solo di non aver rispettato la soglia del 2%, ma pure di essere inadempienti nei confronti degli Usa. E si chiede quando li rimborseranno. In un altro ancora esorta gli alleati a pagare DI PIU’ (sempre maiuscolo) e gli Usa a pagare di meno in un rapporto che definisce “iniquo”. Questa valanga di dichiarazioni dai social ha travolto gli alleati europei a Bruxelles ancora prima che il summit incominciasse, creando un clima di destabilizzazione.
Lo stesso clima è continuato anche durante il summit. Secondo fonti del Wall Street Journal, il presidente americano ha iniziato a parlare di budget in pubblico, mentre erano presenti anche i presidenti di Ucraina e Georgia, partner ma non membri. Su suggerimento di Angela Merkel, i due esterni sono stati accompagnati fuori dall’aula. Dopodiché, Trump ha continuato a tessere le lodi di chi almeno spende il 2% e rimproverare chi non raggiunge la quota. Il premier danese, Lars Lokke Rasmussen, ha ricordato al presidente americano che ci sono altri modi per contribuire allo sforzo comune. Ad esempio, la Danimarca ha pagato nella guerra in Afghanistan con un numero di caduti che, in proporzione al contingente, è pari a quello subito dagli Stati Uniti. “Non potremmo più guardare in faccia le famiglie dei caduti, se dicessimo loro che affrontiamo l’argomento Nato solo da un punto di vista economico”. Trump pare abbia accettato l’obiezione. Ma ha insistito sul tema dei contributi. Nel corso del summit ha anche chiesto, senza fissare date di scadenza o impegni, un raddoppio della spesa militare: il 4% sul Pil invece che il 2%. Se è stato raggiunto un accordo per raggiungere la soglia del 2% entro il 2024, il raddoppio della spesa militare appare come una missione impossibile, politicamente destabilizzante. Per fare un esempio, in Italia solo per raggiungere il 2% richiesto, occorrerebbe aggiungere 15,7 miliardi di euro a un budget della Difesa che attualmente ammonta a poco più di 21 miliardi. Ed è già un capitolo di spesa pubblica molto impopolare, a giudicare dal dibattito più che decennale sull’opportunità di partecipare al programma F-35. Trump ha ricavato il dato (4%) approssimando per eccesso la percentuale della Difesa sul Pil americano, attualmente ferma al 3,5%, ha quindi usato un dato impreciso per aggiungere pressione sugli alleati.
A giudicare dai risultati, però, la destabilizzazione c’è solo negli atteggiamenti. Stando ai documenti ufficiali, la dichiarazione congiunta della Nato, accettata anche da Donald Trump, non menziona il nuovo obiettivo del 4%, ma si ribadisce l’impegno a raggiungere la soglia del 2% per tutti gli alleati entro il 2024. La richiesta di onorare questa soglia, accettata dai membri dell’Alleanza ai tempi della presidenza Bush nel 2006, è caratteristica della politica americana negli ultimi dodici anni. Anche l’amministrazione Obama ha cercato di far valere il punto, come in occasione della visita dell’ex presidente a Varsavia del 3 giugno 2014, o dell’intervento dell’allora segretario di Stato al Nato Council di Washington del 29 aprile 2014, tanto per citarne due. E dunque: nulla di nuovo sotto il sole.
Da un punto di vista politico, nel documento viene ribadita la missione principale dell’Alleanza: i primi dieci punti del comunicato sono soprattutto un rinnovo dell’impegno alla difesa comune delle democrazie e un atto di accusa nei confronti della Russia, sia per la sua annessione della Crimea, sia, in generale, per la sua opera di destabilizzazione. Sulla Crimea, Trump ha fugato ogni dubbio sulla possibilità che potesse riconoscerne l’annessione. Un dubbio che lui stesso aveva alimentato, con dichiarazioni molto ambigue a margine dell’ultimo G7 in Canada e in una successiva conferenza stampa, ma a cui sono seguite una serie di smentite ufficiali. Nella dichiarazione congiunta, da lui sottoscritta, si legge che “Noi ribadiamo il nostro sostegno all’integrità territoriale e alla sovranità dell’Ucraina, della Georgia e della Repubblica di Moldova nei loro confini riconosciuti internazionalmente. In conformità ai suoi impegni internazionali, noi chiediamo alla Russia di ritirare le sue forze che ha schierato in questi tre paesi senza il loro consenso. Condanniamo fortemente l’annessione illegale e illegittima della Crimea, che non riconosciamo e non riconosceremo”.
Quanto alla destabilizzazione russa, si intende anche l’ingerenza dei servizi segreti del Cremlino nei processi elettorali nazionali, il punto che più spesso viene contestato a Trump. Il “Russiagate”, l’indagine dell’intelligence statunitense sulle presunte ingerenze russe nelle presidenziali del 2016, riguarda proprio l’elezione del presidente Trump. Le risposte ambigue dell’attuale inquilino della Casa Bianca al summit di Helsinki hanno rafforzato ulteriormente questo dubbio di ingerenza e quantomeno tacito accordo fra Trump e Putin, soprattutto quando ha messo sullo stesso piano il parere di Putin (che ovviamente nega ogni ingerenza) e gli attuali risultati dell’indagine della sua stessa intelligence, che hanno portato finora all’incriminazione di 12 cittadini russi, accusati di furto dei dati a scapito dei Democratici. Nella conferenza stampa rilasciata dopo il summit Trump ha detto chiaro e tondo: “Non vedo per quale ragione dovrebbe esserlo” (coinvolta, la Russia, nelle elezioni americane, ndr). Eppure, appunto, nella dichiarazione congiunta della Nato, sottoscritta anche da Trump, nessuno mette in dubbio che le ingerenze russe ci siano. Al punto 6, si legge: “La Nato sta sfidando la sicurezza e la stabilità euroatlantica attraverso azioni ibride, compreso il tentativo di ingerenza nei processi elettorali e nella sovranità delle nostre nazioni, come nel caso del Montenegro, campagne di diffusione della disinformazione e atti ostili informatici”.
Infine la lite con la Germania, per la sua politica di importazione di gas dalla Russia, è una costante della politica estera americana. La Germania, capofila del gruppo di negoziatori europei sulla crisi dell’Ucraina, è anche il maggiore importatore nell’Ue di gas naturale dalla Russia, più del 20% degli acquisti di tutti i membri dell’Unione nel 2017. Il gas russo costituisce il 40% di quello acquistato ogni anno dai tedeschi, una quota che non è mai cambiata dal 2015 (anno dell’accordo di Minsk sulla guerra in Ucraina, negoziato soprattutto su iniziativa della Germania). Con il raddoppio di Nord Stream, la Russia esporterebbe in Germania, 110 miliardi di metri cubi di gas all’anno, circa il 60% del totale delle esportazioni in tutta Europa. Il “j’accuse” trumpiano trova anche degli alleati fra i polacchi. Nei giorni concitati del vertice di Bruxelles, il ministro degli Esteri polacco Jacek Czaputowicz ha definito un “errore” il raddoppio del Nord Stream. In genere, sia la Polonia che i Paesi Baltici, i cui interessi sono direttamente colpiti dal progetto, stanno allineandosi alla posizione statunitense. E, appunto, non è nulla di nuovo, perché anche ai tempi dell’amministrazione Obama, il segretario di Stato John Kerry, il 5 aprile 2016, dopo un incontro con Federica Mogherini, Alta Rappresentante della Politica Estera e di Sicurezza Comune, aveva detto a proposito del progetto Nord Stream 2: “Questo progetto ha prodotto un dibattito surriscaldato in entrambe le sponde dell’Atlantico e siamo convinti che avrà un impatto assolutamente negativo sull’Ucraina, sulla Slovacchia e sull’Est Europa”. L’allora vicepresidente Joe Biden definiva il Nord Stream 2: “Fondamentalmente un cattivo accordo per l’Europa” che avrebbe potuto avere conseguenze “destabilizzanti in Ucraina”.
Insomma, nei tweet e negli atteggiamenti pubblici e privati, nel modo di parlare, nelle dichiarazioni alla stampa, Trump parrebbe sul punto di lasciare la Nato. Negli atti di governo e nei documenti ufficiali, invece, resta nei binari della tradizionale politica Usa: un alleato forte che chiede maggior impegno a quelli più “pigri”. E, nei fatti, ha anche aumentato l’impegno Usa in Europa. Ad esempio ha venduto missili anti-carro Javelin all’Ucraina, quale aiuto nella lotta ai separatisti pro-russi. Una mossa che l’amministrazione Obama non aveva voluto compiere.
Due le possibili interpretazioni. La prima, più pessimista: Trump sta dicendo quel che vuole fare, anche se, per il momento, agisce ancora secondo i criteri ereditati dalle passate amministrazioni. Se ciò è vero, prima o poi, farà prevalere la sua linea politica isolazionista, rompendo con gli alleati europei. La seconda, più ottimista: Trump sta semplicemente usando la sua “arte del negoziato”, quindi spara grosso per ottenere il più possibile dai suoi interlocutori. In questo caso, non romperà con gli alleati, ma mirerà a chiedere loro un maggior impegno. Come quasi sempre accade, la verità sta probabilmente nel mezzo: Trump è un convinto isolazionista, ma non può fare a meno della Nato.
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