Tanto tuonò che piovve. In Alabama, tradizionale roccaforte repubblicana, la diga dei consensi trumpiani ha cominciato a sgretolarsi. La prospettiva di una presidenza one-term, ossia di un solo mandato, incombe ormai su Donald Trump.

La partita decisiva si giocherà nelle elezioni mid term del prossimo Novembre quando i democratici cercheranno di scalzare l’esile maggioranza repubblicana al Senato – assottigliatasi a 51 seggi - e la stessa maggioranza alla Camera dei Rappresentanti. Per i repubblicani, la sconfitta del loro candidato al seggio senatoriale dell’Alabama è la prima da una generazione a questa parte. Il loro annus horribilis è cominciato in Virginia ed ha raggiunto una svolta drammatica in Alabama dove Roy Moore, con la sua eredità di molestie a giovani donne e locuzioni razziste, ha ceduto sotto i colpi di uno sfidante democratico, Doug Jones, che in condizioni normali sarebbe stato sovrastato da un candidato repubblicano. Ma Roy Moore non era un candidato normale, ed alla fine i sospetti di turpitudine lo hanno travolto, nonostante la grancassa di tweet e di interventi a suo favore del Presidente Trump. Il messaggio che l’Alabama ha rinforzato sulla scena nazionale è che il partito repubblicano, che un anno fa aveva realizzato un potere unificato a Washington con la conquista della Casa Bianca, del Senato e della Camera dei Rappresentanti, si ritrova improvvisamente alle prese con una frattura interna e con un Presidente che è nel mirino di una severa inquisizione per le accuse di collusione con agenti del Cremlino durante la campagna elettorale. Non solo, ma stanno prendendo vigore le denunce contro Trump da parte di donne (sono già sedici) che furono oggetto delle sue molestie.

Se gli elettori conservatori dell’Alabama si sono astenuti dal votare per Moore lo si deve a molti fattori, dalla figura moralmente compromessa del candidato al movimento di ripudio della presidenza Trump. Né si può sottacere il fatto che l’elettorato di colore, che rappresenta il trenta per cento in Alabama, ha votato contro Trump con un’affluenza insolitamente alta alle urne. Di fatto, questa è la terza volta che Donald Trump subisce il ripudio elettorale. La prima si verificò nella stessa Alabama quando Trump appoggiò la candidatura del Senatore repubblicano in carica, Luther Strange, nell’elezione primaria tra repubblicani. Nel duello con Strange prevalse allora proprio Roy Moore, inizialmente avversato dal Presidente. Le cose non sono andate meglio in Virginia dove il candidato appoggiato da Trump, il repubblicano Eddie Gillespie fu sepolto sotto una valanga di voti per il candidato democratico al governatorato Ralph Northam. Ed ora in Alabama è venuta la terza, e la più clamorosa, dimostrazione di ripudio del Presidente. E pensare che nel 2016 Trump aveva incassato i voti elettorali di quello stato con un margine di 28 punti su Hillary Clinton. Nella consultazione senatoriale, i consensi espressi per Trump hanno esattamente pareggiato il conto, negli exit polls, con le espressioni di disapprovazione per il Presidente.

La sconfitta di Moore in Alabama non è il primo segnale dello sconquasso che regna ormai nel campo repubblicano ma è il più significativo perché conferma che la lotta intestina tra l’ala estremista che fa capo a Stephen Bannon e la leadership rappresentata dal Senatore Mitch McConnell non potrà che inasprirsi. Bannon, che per un certo periodo svolse funzioni di consigliere alla Casa Bianca, ha da tempo dichiarato guerra a McConnell. Le ripercussioni non mancheranno di farsi sentire in quegli stati con seggi senatoriali vacanti a seguito delle dimissioni dei senatori repubblicani in carica, come nel caso di Tennessee e Arizona, oltre che nel Nevada, dove il partito democratico può contare su candidati dalle ottime credenziali. Uno dei maggiori pericoli che si presentano alla leadership repubblicana è emerso con indiscutibile gravità proprio in Alabama, dove una forte componente di elettori con educazione universitaria residente nelle zone suburbane ha abbandonato le tentazioni conservatrici votando per un candidato democratico con valori progressisti come quello dell’appoggio all’aborto. Tra le reazioni al voto dell’Alabama va segnalata l’importanza attribuita ai risultati nella contea di Jefferson, che include la capitale dello stato, Birmingham, e l’area circostante più ricca, dove il candidato democratico ha riscosso il 68 per cento dei suffragi. In termini squisitamente politici, il problema di molti candidati repubblicani alle prossime elezioni ora appare quello di distanziarsi dalla presidenza Trump.

Una cosa è certa, e l’elezione in Alabama lo prova, che un numero crescente di repubblicani comincia a rendersi conto del danno che Donald Trump, con il suo linguaggio politico stridente, arreca alle istituzioni nazionali. In Alabama i giovani elettori hanno certamente preso nota del messaggio che Trump esternava alla vigilia dalla vicina Pensacola (Florida) asserendo: “È provato che abbiamo un sistema manipolato. Dovranno essere fatti molti cambiamenti”. Meno di ventiquattro ore dopo, il Senatore repubblicano dell’Arizona, Jeff Flake, dimissionario ma instancabile accusatore di Trump, diramava un tweet pesantissimo: “Il nostro non è un sistema malato, signor Presidente. Non seminiamo sfiducia nelle nostre istituzioni democratiche”. Se il voto urbano-suburbano ha ribaltato le aspettative repubblicane in Alabama, gran parte si deve alla generazione femminile più giovane che ha giudicato più severamente di altre donne il carico di molestie sessuali attribuite all’allora trentenne Roy Moore.

Intanto, su scala nazionale, gli effetti dirompenti delle accuse per abusi sessuali non accennano a scemare. È facile prevedere che i democratici, rincuorati dall’esito elettorale in Alabama, per lungo tempo si sforzeranno di affibbiare ai candidati repubblicani l’onta di un comportamento equivoco, per non parlare delle crescenti accuse rivolte allo stesso Presidente Trump. Di fatto, i due partiti americani affrontano la crisi degli abusi sessuali con strategie drammaticamente diverse e ciò presumibilmente contribuirà all’esito delle elezioni congressuali del 2018. La strategia democratica prende di mira il Presidente per la semplice ragione che il Presidente è il personaggio centrale nella contesa elettorale di mid term. Aldilà del risultato delle elezioni del novembre scorso in Virginia e di quello in Alabama, non vi è dubbio che gli attacchi frontali al Presidente repubblicano trovano importanti consensi nell’elettorato femminile più evoluto, che è sempre più chiamato a decidere circa molestie, abusi ed altre violenze commesse per anni da esponenti repubblicani e democratici. Per contro, non è facile per i democratici mantenersi in una condizione morale “high ground”, ossia in una posizione relativamente virtuosa rispetto a quella dei repubblicani, una posizione raggiunta sbarazzandosi del Senatore Al Franken e del vecchio Congressman John Conyers. Il quesito che sorge è fino a che punto i democratici siano disposti a gettare gli elementi più compromessi del partito in pasto ai leoni nella pubblica arena nell’intento di permanere sullo “high ground”. Senza contare che il partito democratico ha sulle spalle l’albatross di un Bill Clinton che a suo tempo rischiò l’impeachment per le sue trasgressioni con una giovane stagista della Casa Bianca. La patata bollente di Bill complica le decisioni strategiche non solo per il 2018 ma anche per il 2020 quando si tratterà di decidere se escluderlo dal podio della convenzione o addirittura radiarlo in anticipo da qualsiasi partecipazione alla campagna elettorale.

In conclusione, la valanga sessuale che ha travolto membri del Congresso ha cambiato l’ambiente politico nazionale rendendolo tossico ed imprevedibile. Né si può ignorare il pesante effetto che sta avendo sul cameratismo che un tempo caratterizzava i rapporti tra membri e funzionari del Congresso. Sono molti oggi coloro che evitano di entrare in ascensori occupati da donne negli edifici congressuali. Quanto alla scena politica, vale ripetere quel che è evidente, che i problemi per i repubblicani sorgono dalla presidenza Trump e minacciano la loro supremazia al Congresso. Per contro, i democratici vengono sospinti, come in Alabama, da uno tsunami di neo candidati, tra cui molte donne, di volontari e di denaro. Resta da vedere cosa faranno in ordine alla loro leadership, che allo stato attuale dei fatti è deficitaria. I prossimi mesi ci diranno in quale misura.