In attesa che il Congresso degli Stati Uniti autorizzi l'intervento armato in Siria deciso da Barack Obama, è necessario soffermarsi sul perché ancora oggi la comunità internazionale non sia riuscita ad arrestare il massacro che si sta celebrando in quel paese arabo. Evidentemente non sono bastati due anni e mezzo di guerra, 100mila morti e oltre 2 milioni di profughi a convincere qualcuno a fare qualcosa. Il mondo non si è lasciato impressionare nemmeno dalla notizia della distruzione di tesori architettonici e culturali quali Aleppo, con il suo suk secolare, il Krak del Cavalieri o Palmira. Per avere un’idea della perdita, è come se fossero stati bombardati il Colosseo, il Ponte dei Sospiri e la Cappella degli Scrovegni.
1. «Delenda Damasco», confidò a chi scrive, più di un anno fa, Gregorio III Laham, patriarca della chiesa greco-melchita (di rito ortodosso, ma sui juris con Roma). Un amico personale di Assad, Gregorio III, un protagonista attivo dell’affermazione del regime Baath, ma anche un osservatore disincantato delle vicende rivoluzionarie che hanno colpito il mondo arabo in questi ultimi tre anni. L’invettiva del patriarca oggi si sta rivelando come una previsione tristemente azzeccata. In fondo, la pace in Siria non interessa a nessuno.
Sul piano della cronaca il fronte interventista si vede bloccato dalla non chiarezza delle prove. Il raid del 21 agosto, a Jobar, appena fuori Damasco, non è certo se sia stato macchiato dal ricorso ad armi chimiche. Non è il caso di discettare sulla moralità o meno di alcuni strumenti di guerra. Restano tuttavia in sospeso i dubbi in riferimento alla tattica. Gli uomini di Assad sostengono che a Jobar, se avessero usato il gas nervino, ne sarebbero rimasti vittime loro stessi. Lo dicono ai microfoni di un recentissimo reportage a firma italiana. Obiezione logica. È dai tempi del saliente di Ypres, novembre 1914, che i gas sono un’arma a doppio taglio, dalle ripercussioni imprevedibili. Basta che il vento cambi e i carnefici diventano vittime.
Appare più debole invece la tesi politica sostenuta da Damasco. Il governo Assad afferma che, per amor patrio, non avrebbe mai dato l’ordine di colpire i propri concittadini. Il 23 ottobre 1937, Madrid fu quasi rasa al suolo dagli Stukas tedeschi per ordine dei nazionalisti di Franco. Non è necessario ricorrere a Hemingway e al suo Per chi suona la campana per capire come sia il veleno atavico ad alimentare una guerra civile. Il fatto che i morti di Jobar fossero siriani non significa nulla. La responsabilità può essere di chiunque. Sia di Assad sia dei ribelli.
Tuttavia, è questo il dubbio che ha impedito a Cameron di avere Westminster dalla sua per marciare su Damasco. Un ostacolo che perfino Obama si è trovato di fronte e che sta cercando faticosamente di superare al Campidoglio.
Tanto più se i dubbi degli ultimi giorni si sommano alle contrarietà che da sempre impediscono una soluzione del conflitto. Domanda diretta: a chi conviene concludere oggi la partita? E a chi, al contrario, interessa tenerla aperta? La primavera araba pare avere un carattere itinerante. Tunisia, Egitto e Libia non hanno ancora imboccato la strada della stabilità. A maggio scorso, la Turchia ha avuto anch’essa un assaggio dell’entusiasmo collettivo che può nascere da uno scivolone delle istituzioni. La Siria, in questo rivolgimento regionale, è una metastasi che, se venisse asportata, non arresterebbe il problema.
2. Caduta Damasco, Giordania e Bahrein sarebbero fin troppo esposte ai venti delle piazze. E Dio non voglia che anche l’Arabia saudita si venisse a trovare in una situazione simile. Washington non se lo perdonerebbe. Non è un caso che l’uomo di Riyadh più influente sulle rive del Potomac, il principe Bandar bin Sultan, sia stato avvistato più volte in Giordania. Perché è da lì che gli agenti dell’intelligence saudita, di cui Bandar è capo, entrano in Siria e combattono a fianco dei ribelli insieme ai ribelli addestrati dalla CIA.
D’altra parte un conflitto nasce sulla base di solide motivazioni economiche e si conclude nel momento in cui queste si esauriscono e subentrano gli interessi monetizzabili per la pace.
La guerra civile siriana non è stata causata da reali interessi di capitale. Non sono in gioco giacimenti petroliferi. I gasdotti che, partendo dall’Iran dovrebbero raggiungere il Mediterraneo appaiono secondari. Come pure quelli progettati dal Qatar verso la Turchia. L’Occidente, Europa soprattutto, è interessata ai maxi impianti di Nabucco e Southstream. Alla Cina preme la sicurezza dell’Oceano indiano.
3. C’è poi la questione morale. Obama è un Premio Nobel per la pace. Bombardare un sesto paese nell’arco del suo mandato presidenziale – la Siria andrebbe a sommarsi ad Afghanistan, Iraq, Libia, Pakistan e Yemen – potrebbe risultare indecoroso. Soprattutto perché con Assad, chi più chi meno, tutti fino al 2011 hanno avuto un rapporto di schietto scambio politico. Non si tratta solo di doverosi rapporti diplomatici. Ma di naturali affari commerciali tra le nazioni. Affari che l’Italia sembra aver intessuto egregiamente. Lo scandalo di questi giorni della fotografia di qualche anno fa del Segretario di Stato Usa, John Kerry, a cena con il presidente siriano è un fuoco di paglia. Chi poi accusa Giorgio Napolitano di aver nominato il presidente siriano Cavaliere di Gran Croce dovrebbe farsi un giro negli annali delle onorificenze europee. Nel 1939, Stalin concesse al ministro degli esteri del Terzo Reich, Johakim von Ribbentrop, l’Ordine di Lenin. Ma questo non impedì a Berlino e Mosca di scannarsi neanche due anni dopo. I rapporti interpersonali tra leader stranieri sono assolutamente naturali. Nascono all’improvviso, all’improvviso possono implodere. In ogni caso non c’è spazio per la morale.
Finiamo con le contrarietà future. Al di là delle polemiche, le domande che il ministro Bonino si è posta giorni fa restano ancora inevase. Perché un raid? Per scalzare Assad, oppure come intimazione a non ricorrere più alle armi chimiche? E ancora, quale sarà la Siria futura? A prescindere che Assad resti oppure no.
L’alternativa alla guerra è una soluzione politica che, non essendo maturata in questi due anni e mezzo, è difficile possa sbocciare da un momento all’altro. E allora quanto un’operazione armata potrà accelerare il decorso della malattia, se poi è ignoto il tipo di convalescenza?
© Riproduzione riservata