Giuliano Ferrara ha superato il limite della decenza. Lo ha superato pubblicando on line un intervento dello scrittore Camillo Langone intitolato “La non indifferenza che uccide”. La tesi dell’intervento è semplice. È chi non è indifferente che ha causato la recente strage di immigrati clandestini a Lampedusa. Se il loro buonismo, la loro political correctness non li convincesse che l’Italia è un paese aperto e accogliente, quei disperati non sarebbero saliti su quella carretta del mare, e quindi non sarebbero morti. La colpa della loro morte, dunque, è loro, dei “non-indifferenti”.
“I cento o duecento o non so quanti morti di Lampedusa li ha uccisi la non indifferenza ovvero l’illusione dell’accoglienza. Da chi sono stati illusi? Ad esempio da Enrico Letta che seguendo la moda come non fanno più nemmeno le parrucchiere (la moda è passata di moda, mi raccontano tristi gli amici contoterzisti dell’abbigliamento) ha nominato una ministra congolese. Ovvio che poi in Africa pensino che l’Italia sia il paese di Bengodi, che basti metterci piede per fare carriera a spese del contribuente. E da tutti coloro che li chiamano ‘migranti’, parola carica di pregiudizio positivo, parola poetica, di risonanza carducciana, ’stormi d’uccelli neri / nel vespero migrar’”.
E quindi:
“Se li avessero chiamati correttamente invasori (il Sabatini Coletti definisce invasore colui che compie invasione ossia ’irruzione di un folto gruppo di persone in un luogo’), e se la notizia di questa definizione si fosse diffusa oltremare, molti dei cento o duecento o non so quanti morti sarebbero ancora vivi, non sarebbero mai partiti temendo un’accoglienza di dobermann e fucilate, anziché di sorrisi e mense, volontari e preti. E ora li si illude ancora, siccome non ne sono morti abbastanza. Gli italiani brava gente, gli italiani de core, sono loro gli stragisti.”
Siamo abituati a essere irritati dagli articoli che Giuliano Ferrara pubblica su Il Foglio. È il loro obiettivo designato. Sono scritti apposta su carta smeriglio per sovvertire il “buonismo” di chi segue il political correct, in altre parole sono scritti per irritare chi è “di sinistra” e quindi si nutre di buoni sentimenti. In genere l’irritazione passa subito. In punta di penna, Ferrara è un peso piuma. Si può agevolmente passare oltre. Ma questa volta, pubblicando il greve articolo di Langone, ha oltrepassato il segno.
1. Non vorrei vi foste fatti l’idea che giudico disgustosa l’idea esposta da Langone. È vero: se sparassimo a vista sugli immigrati non ne riceveremmo così tanti e non ne sarebbero morti un numero impressionante nel tentativo di raggiungere le nostre coste. La strage l'avremmo fatta noi e c'è da scommettere che ne avremmo uccisi un numero molto maggiore. L'idea in sé, ne converrete, non è disgustosa, è stupida. Ciò che trovo ributtante è che neanche di fronte a centinaia di morti Il Foglio abbia voluto per un attimo rinunciare al giochino. Il boccone era evidentemente troppo ghiotto per questo giornale che si nutre dell'irritazione del nemico “buonista”. Rimandassimo tutti a casa a fucilate non verrebbe nessuno e salveremmo loro la vita. Che bella trovata. E noi non ci siamo arrivati perché siamo “buonisti”, e non perché riteniamo invece che il problema abbia delle dimensioni talmente ampie da imporre cautela nelle generalizzazioni.
Quello che ha fatto corto circuito con l’articolo di Langone è il “metodo Ferrara”, la via italiana alla “guerra culturale”.
Ferrara ha cercato in ogni modo di importare in Italia le culture wars americane, quelle battaglie di principio che oppongono i liberals ai conservatori. Sospetto che non lo abbia fatto tanto per accompagnare il bipolarismo distinguendo fra progressisti e conservatori, quanto per stornare consensi dalla sinistra alla destra. Molti italiani sono infatti di cultura conservatrice, ma votano a sinistra perché non si identificano con i valori “neo-liberisti” della destra populista di “amor nostro”, come Ferrara chiama Berlusconi. Usando l’amo del conservatorismo sociale, Ferrara, gran consigliere di Berlusconi, ha intercettato una parte di quel voto portandolo a destra.
Il gioco è di nicchia, e tutto quello che fa Ferrara su Il Foglio è indirizzato a questa nicchia. Ma le élites alla fine contano. Sono opinion makers e sul filo del rasoio possono fare la differenza. Il problema è che per quanto si possa benissimo ignorare Ferrara e il suo metodo alla fine il suo mirare alle élites avvelena i pozzi del linguaggio comune. Prima o poi una delle sue trovate ti raggiunge e ti irrita.
Ciò che maggiormente oppone i conservatori ai liberals in America è infatti un meccanismo che trasforma la lingua in un campo di battaglia. È importando questo aspetto della guerra culturale americana che Ferrara infligge il maggior danno al discorso politico italiano. I conservatori dicono di mantenersi alla lettera del dettato costituzionale mentre i liberals lo reinterpretano costruendolo ex novo. I conservatori chiamano political correctness questo modo di usare la lingua a fini di edificazione sociale. Se invece di dire “negro” a un cittadino si dice “afro-americano” si conferisce dignità a quel cittadino, almeno secondo i liberals. Secondo i conservatori, invece, si manipola la lingua a fini di consenso.
2. Il politically correct ha preso piede negli Stati Uniti negli anni settanta. Fra le sue conquiste c’è la diffusione capillare di eufemismi per evitare che qualcuno possa essere discriminato attraverso la “naturalizzazione” di pregiudizi nel linguaggio comune. La parola “gay” fu adottata per portare alla luce chi era costretto a nascondere se stesso o la propria sessualità per non incorrere nella violenza degli intolleranti. Ha funzionato, come ha funzionato chiamare i neri afro-americani, un eufemismo ridicolo ma efficace. A scuola un bambino nero non doveva più sentirsi diverso solo perché lui era “nero” e gli altri erano Italian-Americans, German-Americans, Anglo-Americans. Lui ora poteva rispondere di essere African-American, e provare orgoglio come tutti gli altri bambini di appartenere alla propria “nazione di nazioni”.
Queste cose ai “foglianti” non interessano. Loro vogliono vedere solo il lato comico della political correctness. Come il cambio quasi stagionale di eufemismo per gli handicappati, da “altrimenti abili” a “chi affronta la sfida della mobilità”. È chiaro che anche la ri-descrizione linguistica ha un limite. Ma per Ferrara e i suoi sodali nulla di tutto questo ha un senso. Vogliono essere chiamati “ritardati” se afflitti da sindromi o malformazioni. Ti dicono in faccia di essere “minorati” e poi ti colpevolizzano dicendo “e tu mi avresti abortito se ti fossi accorto della cosa con una ecografia”. Non importa se nulla di tutto questo ha un benché minimo rilievo filosofico anche se pretende di averne, ma si sa i filosofi si contano sulla punta delle dita.
La missione de Il Foglio è proprio quella di ribattere al politicamente corretto con il politicamente scorretto, una figurazione che è semplicemente il rovesciamento dell’eufemismo sotto attacco. La sinistra è piena zeppa di credenti laicizzati, ecco allora apparire gli “atei devoti” che non confondono la laicità con il “laicismo” (conio di lana caprina forgiato sull’opposizione capziosa tra marxisti e marxiani che deve aver tormentato l’infanzia di Ferrara). Non è tanto la produzione di nuovo pensiero che irrita il nemico, ma il rovesciamento del suo linguaggio. O meglio, di una caricatura del proprio linguaggio. A quel punto non si parla più di idee ma di capriole linguistiche. Oggi basta dire politcallly correct e un intero plotone di cloni storce il naso senza neanche riflettere, o sapere di che cosa si sta parlando. Come per il termine “buonista”, che i conservatori all’amatriciana hanno importato dagli Stati Uniti pari pari: è la traduzione di bleeding heart liberal (progressisti dal cuore tenero), uno dei cavalli di battaglia della destra reaganiana. Questo non è discorso politico.
3. Che neppure davanti a centinaia di morti questi signori abbiano potuto smettere di giocare a questo giochino – al rovesciamento linguistico di una caricatura di un rovesciamento linguistico – è disgustoso. Si, chiamare “migranti” chi, per disperazione, fugge la miseria del proprio paese è un tantino ridicolo. Ha ragione Langone (lo dico con ironia). Dovremmo chiamarli “disperati” e sguinzagliargli contro i dobermann. Dimenticando come altri paesi, in altre occasioni, diedero ai nostri emigranti l’opportunità di rifarsi una vita.
Poco dopo aver pubblicato il suo intervento, Langone, in una rubrica che tiene su Il Foglio (“Preghiera”, Langone si bea di essere un cattolico reazionario), cerca di uscire dal putiferio in cui si è cacciato dopo il suo primo intervento usando la più collaudata tecnica del “metodo Ferrara”. Fa lui la vittima.
“Chi è cattivo? Cattivi ci sarete voi. Sono cattivo io che per amor di patria chiamo invasori quelli che voi chiamate, con una parola che esprime un pregiudizio favorevole e nessuna capacità di giudizio, migranti? Sono cattivo io che cerco di ragionare sui morti di Lampedusa o voi che minacciate di denunciarmi per istigazione all’odio razziale, impedendomi di andare da Cruciani e da Porro perché in radio e in televisione non esiste manleva e se davvero venissi trascinato in tribunale per pagare gli avvocati dovrei vendere anche la bicicletta? Io sono buonissimo, io sono un uomo di preghiera, io sono uno che si commuove ascoltando l’ultima canzone di Luca Carboni (’Mentre la bilancia piega e non c’è via di fuga’), voi invece siete dei iniqui e degli insensati anche quando vi credete moderati perché magari proponete l’aiutiamoli-a-casa-loro.” E via discorrendo.
Non c'è che dire. Si è superato il limite della decenza. Invece di produrre pensiero eccoci di nuovo alle piroette. In punta di penna, e con un peso specifico pari a zero. Il tutto sulla pelle di più di trecento morti. Se Ferrara e Langone sono intellettuali organici al ventennio berlusconiano, forse abbiamo davvero toccato il fondo come società. E mi si perdoni la metafora che porta a contatto cose che dovrebbero rimanere distanti, i morti annegati e chi specula politicamente sulle loro vite spezzate.
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