Il presidente del Comitato dei Garanti per il 150° dell’unità d’Italia, Giuliano Amato, ha recentemente giudicato il governo Monti come un “figlio del centocinquantesimo”. La tesi è coraggiosa, e discutibile, ma propone due spunti di riflessione.
Il primo, proposto dallo stesso Amato, riguarda il tasso di partecipazione alle celebrazioni del centocinquantenario che certamente è stato superiore alle attese, come dimostravano i balconi pavesati di tricolori (ma solo a Nord, a Sud non ne ho visto uno). In questa insperata riacquisizione del senso di appartenenza alla Patria comune, sta forse l’evidenza più drammatica della crisi culturale del centro-destra. Avrebbe dovuto essere quest’ultimo, infatti, a impugnare il tricolore e a impegnarsi per recuperare un senso della Nazione, il cui sforzo è stato invece quasi con fastidio delegato agli inquilini del Quirinale: Carlo Azeglio Ciampi, prima; Giorgio Napolitano, dopo.
Non dimentichiamo in cosa avrebbe dovuto sostanziarsi il programma di celebrazioni dell’Unità nella primitiva versione, quando pareva che ci fossero ancora soldi da spendere: una serie sterminata e spesso sconclusionata di opere pubbliche con le quali accontentare diversi potentati, politici ed economici. Non è stata solo la incombente ipoteca leghista a impedire alla maggioranza di allora di programmare seriamente le celebrazioni dell’Unità, ma un autentico gap culturale rispetto a quel ceto medio moderato e ancorato al senso dello stato che proprio il centro-destra si vantava di rappresentare. E non è un caso che proprio a Nord i risultati elettorali alle elezioni amministrative di primavera siano risultati catastrofici per quella coalizione.
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