Intervista di Francesca Silvia Rota con Beatrice Magni e Francesca Pasquali, autrici, per il Laboratorio di Politica Comparata e Filosofia Pubblica del Centro Einaudi, del saggio “Giustificare il welfare state. Ragioni a confronto” (Working Paper LPF n. 7-2015).
FR/ Il vostro lavoro analizza la giustificazione del welfare state e i suoi possibili sviluppi. Per incominciare vorrei chiedervi se e come è possibile conciliare il welfare state di matrice pubblica con una visione liberale dell’economia e della società. Ad esempio, per Giorgio Arfaras lo “stato sociale” dimostra la possibilità della “combinazione di un sistema liberale classico con l'intervento sociale dello stato”.
BM FP/ L’analisi della tensione tra una concezione di welfare state di matrice pubblica e le istanze del liberalismo è alla base del nostro lavoro. “Liberalismo” indica una categoria molto ampia, nella quale possono rientrare tanto autori che considerano illegittimo l’intervento pubblico volto a promuovere il benessere individuale attraverso trasferimenti di risorse dai più ai meno avvantaggiati (si pensi per esempio a Robert Nozick), tanto autori che ritengono che principi di giustizia rendano necessario un simile intervento (si pensi per esempio a John Rawls). Ciò dipende dal tipo di visione della società e dell’individuo che si adotta. Se si intende l’individuo come detentore di diritti esclusivi su di sé - sul proprio corpo, sui propri talenti e sulle proprie capacità – e, di conseguenza, sui frutti del proprio lavoro e dei propri sforzi e si ritiene che l’unico scopo dell’autorità politica sia la salvaguardia di tali diritti, allora, come sostengono i teorici libertari, l’intervento ridistributivo da parte dagli enti di governo non è legittimo. Questa, però, non è la sola visione possibile. Fermo restando che anche nella prospettiva liberale uno dei fini dell’autorità politica è la protezione dei diritti individuali, la società può essere vista come un sistema di cooperazione, che assicura a ognuno la possibilità di ottenere più di quanto otterrebbe contando solo sulle proprie forze. Se, su questo sfondo, si riconosce che non tutti gli individui, per quanto disposti a cooperare, abbiano le capacità necessarie per trarre vantaggio dalla cooperazione o che la cooperazione tenda, in modo quasi inevitabile, ad avvantaggiare certi individui più di altri, è possibile ritenere che una qualche forma di redistribuzione, anche attraverso politiche sociali, sia legittima. Come sottolineiamo nel nostro lavoro, è questo il caso degli schemi cooperativi fondati sulle dinamiche dell’economia di mercato, in quanto generatori di rischi e vulnerabilità per i quali i singoli non sono direttamente responsabili.
Se è dunque chiaro che, in un’ottica liberale, l’implementazione di politiche sociali attraverso il prelievo fiscale obbligatorio sia una forma di coercizione che necessita di una giustificazione, questo non significa che non sia possibile trovare ragioni a favore del welfare pubblico che siano in linea con principi liberali. Inoltre, rispetto al rischio che l’erogazione di beni e servizi assuma - in contrasto con i fondamenti del liberalismo - una connotazione paternalistica (dato che è il sistema pubblico a selezionare i bisogni più rilevanti e le misure per soddisfarli a prescindere dalle preferenze degli individui), è plausibile argomentare che accedere ai beni e ai servizi erogati dal settore pubblico garantisce agli individui la possibilità di perseguire finalità e di elaborare piani di vita in modo autonomo, proprio come il liberalismo prevede.
Su un piano meno astratto, anche concentrando l’attenzione sull’economia di mercato (tradizionalmente ‘ostile’ all’intervento pubblico), sono diversi gli argomenti che mostrano l’effettiva conciliabilità tra visione liberale e welfare pubblico. Oltre alla possibilità, già richiamata, di sopperire alle difficoltà generate dal mercato, e per le quali gli individui non sono responsabili, è opportuno sottolineare che l’intervento pubblico può essere giustificato come misura necessaria a fare fronte ai fallimenti del mercato e, dunque, come misura necessaria a garantire l’efficienza di quest’ultimo. In più, se il mercato è inteso come un meccanismo che consente agli individui di definire e perseguire liberamente i propri fini, l’intervento pubblico nel settore del welfare può essere giustificato in quanto mira a promuovere valori intrinseci al mercato stesso, assicurando a tutti le opportunità e le risorse per prendere parte alla vita economica e perseguire i propri piani di vita. Si potrebbe, da ultimo, considerare la plausibilità dell’intervento pubblico all’interno di nuove forme di welfare mix, caratterizzate dall’ingresso di attori privati quali fondazioni, cooperative, aziende, o, in linea più specifica e contestuale, da nuove forme di protezione dai rischi, come nel caso del job sharing familiare,
FR/ Nel vostro lavoro sottolineate come il welfare state pubblico sia oggi molto indebolito. Verosimilmente, oltre che per le tensioni da voi descritte, ciò si è verificato anche per l’emergere di inefficienze e effetti distorsivi. È una considerazione generalizzabile o valida solo per alcuni paesi?
BM FP/ La letteratura distingue, in linea generale, quattro modelli di stato sociale: il modello socialdemocratico (o scandinavo), il modello liberale (o anglosassone), il modello corporativo (o continentale), e il modello mediterraneo. Nel nostro lavoro, abbiamo cercato di rintracciare alcune tra le principali tensioni e distorsioni legate a modelli di welfare pubblico, mantenendo la riflessione a un livello teorico e non empirico e, quindi, adottando volutamente un approccio trasversale rispetto a contesti diversi. Non è quindi facile rispondere alla domanda facendo riferimento a casi specifici, a paesi specifici o tracciando una comparazione tra i diversi modelli di welfare state. Tuttavia, in termini generali, è più che plausibile che le inefficienze e le tensioni interne che segnaliamo possano dipendere da fattori contestuali. Nei vari paesi che l’hanno adottato, il welfare state ha rappresentato l’esito di dinamiche e contrattazioni politiche, certamente influenzate dalle specifiche contingenze storiche, culturali e sociali e ha assunto quindi caratteristiche peculiari. Se si tiene conto di questi aspetti, ci sono sicuramente differenze anche sostanziali tra i diversi paesi.
FR/ Come voi stesse evidenziate, molti “limiti” del welfare state dipendono dal tentativo di trovare un difficile equilibrio tra valori e principi apparentemente contrastanti. Si tratta però di un problema “antico”. Perché allora oggi questo modello è entrato definitivamente in crisi?
BM FP/ Non riteniamo che il modello di welfare state sia oggi entrato definitivamente in crisi: esaminare, dal punto di vista analitico e normativo, le molteplici difficoltà di un modello non significa concludere che sia irreparabilmente compromesso. Da un lato, ci sono, come segnaliamo nel nostro lavoro, tensioni interne tra i principi su cui il welfare state si fonda e, almeno potenzialmente, queste tensioni generano una certa instabilità. Questa non è però una novità. È, piuttosto, un aspetto peculiare del welfare state, che lo rende soggetto a critiche, ma che, al tempo stesso, ne dimostra le notevoli ambizioni. Infatti, il progetto di modellare interventi pubblici a favore del benessere individuale con l’obiettivo di conciliare valori propri della tradizione pubblica delle società liberali non è un’operazione irrealizzabile, sebbene non priva di complicazioni. Il welfare state cerca di individuare un appropriato bilanciamento, per esempio, tra libertà e uguaglianza, con riferimento all’idea che garantendo a tutti uguali opportunità - non solo formali – e risorse adeguate si possa garantire ad ognuno la possibilità di esercitare la propria libertà. Inoltre, il welfare state si sviluppa attraverso il progetto di trasformare istanze solidaristiche in questioni di giustizia, progetto secondo cui l’intervento a favore dei meno avvantaggiati non è da leggere in chiave umanitaria, ma come un dovere nei confronti di chi, non per propria responsabilità, risulta più vulnerabile rispetto ai rischi dei cicli vitali, della malattia, ma anche alla cooperazione sociale e del funzionamento dell’economia di mercato. Chiaramente, tutto ciò comporta dei costi il cui peso non deve essere tale da minare l’efficienza del sistema economico. Quanto sia complicato sostenere i costi legati al welfare state senza che il finanziamento delle politiche e dei servizi sociali diventi troppo oneroso per i cittadini, da un lato, e trovare un bilanciamento tra efficienza e adeguata risposta ai bisogni degli individui, dall’altro, dipende dalle condizioni economiche. Per queste ragioni, malgrado i limiti del welfare state siano tutt’altro che una novità, nei periodi di crisi economica, come quella di questi anni, tali limiti risultano molto più evidenti. Da un lato le crescenti regolazioni a livello sovrastatale introdotte per rispondere alla crisi, hanno reso molto più ristretti i margini di manovra per i governi nazionali – ad oggi sostanzialmente gli unici preposti all’erogazione di beni e servizi sociali. Dall’altro lato, l’esigenza di ridurre le spese ha determinato un po’ ovunque una revisione al ribasso delle risorse destinate alla promozione del welfare. Ciò ha certamente indebolito il modello di welfare state tradizione, ma non ne ha invalidato le premesse. Ciò che si rende necessario, probabilmente, non è l’abbandono del modello, ma un suo ripensamento.
FR/ A questo riguardo, la convinzione di molti è che la riforma del welfare state debba prevedere l’intervento privato e quindi forme di regolazione di mercato…
BM FP/ Noi non crediamo che si debba concepire il nesso tra riforma del welfare e forme di regolazione dei mercati, vero o presunto che sia, unicamente in termini di pressioni della prima sulle seconde. In effetti, come suggeriamo nel nostro lavoro, il welfare state si contraddistingue proprio per il suo intento di introdurre, accanto alle logiche di mercato, dinamiche differenti che prevedano la distribuzione di beni e servizi agli individui a prescindere dalla loro capacità di procurarsi sul mercato le risorse necessarie per accedere a tali beni e servizi. È in questo senso che il welfare state introduce, all’interno di società in cui vige l’economia di mercato, ambiti in cui le regole rilevanti e i meccanismi attraverso i quali si ottengono beni e servizi sono diversi da quelli tipici del mercato.
Una delle possibilità di ripensamento del modello tradizionale del welfare state, che si fonda precisamente sull’idea che l’erogazione di beni e servizi sociali sia compito del settore pubblico, va nella direzione di bilanciare i limiti riscontrati nell’intervento pubblico con le possibilità di iniziativa offerte dall’intervento privato. Ci sono varie ragioni, che ripercorriamo nel nostro lavoro, per cui si può ritenere che la promozione del benessere individuale spetti al pubblico e non al privato. Se si vogliono indagare le possibili giustificazioni del welfare state, il primo passo consiste nel chiarire perché si debba intervenire a sostegno dei meno avvantaggiati, perché questo sia richiesto come dovere da considerazioni di giustizia. Questo, però, non è sufficiente: si tratta anche di indicare a chi, a quali attori spetti un simile dovere e, nello specifico, di chiarire perché spetti proprio al settore pubblico. Per un verso, è chiaro che il compito di provvedere ai bisogni individuali non è appannaggio esclusivo dello Stato: mercato, società civile e famiglie svolgono un ruolo per nulla secondario in molti settori importanti da questo punto di vista. Si può tuttavia ritenere che l’intervento pubblico sia necessario e non possa essere del tutto sostituito dall’intervento privato, sottolineando che la libera iniziativa di individui e associazioni non pubbliche, mediata dai meccanismi del mercato, rischi di non riuscire a rispondere adeguatamente alle esigenze di tutti i cittadini ed sia tendenzialmente meno efficiente rispetto all’iniziativa pubblica che può sfruttare economie di scala e riesce a contenere in modo più incisivo problemi legati alla selezione avversa, al moral hazard e alla presenza di rischi interdipendenti. Si può anche ritenere che l’impegno pubblico nel settore del welfare sia auspicabile perché implica il riconoscimento pubblico, appunto, di certi valori, dalla libertà all’uguaglianza, che le istituzioni dovrebbero incarnare. In altri termini, si può sostenere che il fatto che il benessere individuale sia promosso dal settore pubblico sancisce in modo chiaro che l’accesso ai servizi e beni erogati è una questione di giustizia, che non può essere demandata alla sola benevolenza privata.
Detto tutto questo una possibile via consiste nel prevedere che l’intervento pubblico sia affiancato da interventi privati. Infatti, non è da escludere che il settore privato possa avere dei meriti rispetto a quello pubblico, per lo meno in alcuni ambiti delle politiche sociali. Per esempio, è plausibile aspettarsi dal settore privato una maggiore flessibilità, intesa sia come capacità di rispondere alle diverse esigenze individuali, sia come garanzia del rispetto e del mantenimento di una pluralità di opzioni tra cui scegliere (si pensi al caso dei piani sanitari di assicurazione), evitando soluzioni precostituite che rischiano di avere esiti paternalistici.
FR/ Nel prefigurare un nuovo modello di welfare state, quanto conta la dimensione locale. In altre parole, quanto è percorribile il modello del Regno Unito, dove nuovi poteri sono stati assegnati alle autorità regionali? E una soluzione percorribile o contrasta con l’idea del welfare state come garanzia dei diritti di cittadinanza?
BM FP/ Un modello di welfare che preveda una dimensione locale potrebbe rappresentare una valida soluzione. Naturalmente, il rischio associato alla diversificazione locale è quello di introdurre livelli di prestazione diversi a seconda dei differenti contesti, minando così le garanzie offerte dai diritti di cittadinanza, ai quali sono solitamente associati diritti a beni e servizi uguali per tutti i cittadini. Il rischio sarà naturalmente più o meno elevato, a seconda del grado di autonomia concessa alle autorità locali e del permanere di linee-guida previste dall’autorità centrale. Si tratta di trovare anche in questo caso un adeguato bilanciamento tra il principio di sussidiarietà e il riconoscimento di diritti sociali uguali per tutti. Infatti, è possibile che le autorità locali siano meglio attrezzate per individuare esigenze specifiche del territorio e per prevedere soluzioni mirate, ma questo non significa che le autorità locali siano sottratte al controllo da parte dell’autorità centrale, alla quale spetta la verifica delle prestazioni dei sistemi locali in termini di servizi e che può intervenire in caso di carenze, in modo che determinati standard siano garantiti a tutti i cittadini, a prescindere da dove risiedono. L’assenza di un tale controllo, in effetti, implicherebbe il venir meno o, per lo meno, una notevole revisione dei diritti di cittadinanza, se tra questi diritti si fanno rientrare i diritti sociali.
FR/ Per avviarci verso la conclusione, riprenderei la proposta di un welfare state che sia strumento di attivazione delle libertà individuali per chiedervi quanto questo modello sia conciliabile i modelli di produzione “industria 4.0” e i pesanti tagli occupazionali ad essi associati?
BM FP/ Un modello che sia in grado di garantire una misura di benessere individuale, ma sia anche in grado di promuovere, sostenendole, lo sviluppo delle capacità dei singoli, non solo non entra in conflitto con quella che viene chiamata “industria 4.0”, ma potrebbe essere una risorsa alla luce di questo sviluppo. Infatti, in un modello di questo tipo, l’idea di fondo è che gli individui non sono semplici soggetti passivi a cui fornire i mezzi per soddisfare i bisogni più immediati, prevendendo per esempio sussidi in caso di disoccupazione. Gli individui sono considerati soggetti attivi, sono ritenuti agenti ai quali devono essere forniti gli strumenti necessari a fare in modo che possano, non solo definire autonomamente i propri piani di vita, ma anche provvedere al proprio benessere e ai propri bisogni. Da un lato, questo tipo di intervento che non si limita a fornire mezzi ma intende sviluppare capacità risponde alla critica secondo cui il welfare state tende a sviluppare modelli di dipendenza attraverso un circolo vizioso per cui, se chi si trova in una situazione di bisogno sa che riceverà benefici sociali in modo incondizionato, si riducono – più o meno marcatamente a seconda dei casi – gli incentivi a provvedere da sé ai propri bisogni. Un modello di welfare state che adotti misure volte a sviluppare le capacità degli individui e che faccia dell’impegno ad acquisire certe capacità un requisito per l’erogazione di beni e servizi sociali può rispondere a questo tipo di critica. Dall’altro lato – e questo è il punto più rilevante rispetto alla sua domanda – è possibile ritenere che l’impegno a sviluppare capacità si possa modellare proprio in vista del tipo di professionalità e competenze richieste dall’industria 4.0. In altri termini, se davvero l’intervento nel settore del welfare riuscisse ad avere un ruolo abilitante, come suggeriamo nel nostro lavoro, potrebbe essere una risorsa perché consentirebbe agli individui di affrontare prevista perdita di posti di lavoro tradizionali, grazie all’acquisizione di capacità rilevanti alla luce delle nuove esigenze.
Beatrice Magni è ricercatrice in filosofia politica presso il Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università degli Studi di Milano, dove insegna Filosofia politica, Teorie dell’eguaglianza e diritti, e Bioetica. Coordina la sezione normativa del Laboratorio di Politica Comparata e Filosofia Pubblica (LPF), collabora al Progetto «Percorsi di secondo welfare», dirige il Laboratorio di Bioetica presso il Centro Einaudi, ed è condirettrice della rivista «Biblioteca della libertà». Si occupa di teorie, problemi e pratiche del pluralismo, della tensione tra disaccordi morali e conflitti politici, e della rilevanza normativa del disaccordo in ambito politico.
Francesca Pasquali è professore a contratto per il corso di Political Philosophy presso il Dipartimento di Scienze Sociali e Politiche dell’Università degli Studi di Milano. Collabora da diversi anni con il Centro Einaudi. Partecipa alle attività del Progetto «Percorsi di secondo welfare» e nel 2011 ha tenuto una lezione per la Scuola di Liberalismo. Si occupa di questioni di carattere metodologico e meta-teorico, quali la tensione tra desiderabilità e praticabilità dei modelli normativi, il confronto tra teorie realiste e idealiste e il rapporto tra fatti e principi. Si occupa inoltre di teorie della democrazia, transizioni politiche e processi di democratizzazione, con particolare attenzione ai regimi ibridi e autoritari e alla relazione tra approcci normativi e approcci empirici.
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