La traccia dell’intervento di Giorgio Arfaras per la Scuola di liberalismo (5 aprile 2016) è proposta ai lettori di Agenda Liberale per stimolare la riflessione sul neoliberismo di là da preconcetti e prese di posizione tautologiche.
Una lunga premessa
In un film di Woody Allen, il protagonista torna, grazie ad un “buco” nella continuità del tempo, nella Parigi degli inizi del secolo scorso, ed è affascinato dai grandi personaggi che incontra. Personaggi che oggi - in una società supposta mediocre - non ci sono più. Ad un certo punto, ha la possibilità di restare nella Parigi di allora, ma gli viene il dubbio. “Come si curavano i denti?”. Fra il Picasso di ieri e l'odontoiatria di oggi preferisce la seconda.
L'accusa al neo-liberismo è di essere il demiurgo dei guai che attraversiamo e che non avevamo. Il passato, a differenza del protagonista del succitato film, è così riletto come migliore. Ciò che ribalta una tendenza, affermatasi a partire dal Rinascimento (1), che asserisce che il presente è migliore del passato, ed il futuro sarà ancora migliore. Fra quel che accade oggi e il tempo che fu, sono in molti quelli che pensano che il tempo che fu fosse migliore. Non era affatto migliore. In media, si viveva meno – all'incirca la metà - e si viveva peggio – non si viaggiava, se non per emigrare, si studiava poco, e le espressioni individuali erano represse. Quelli che contestano il neo-liberismo probabilmente non hanno in mente il Mondo che precede la Seconda Guerra, sarebbe anche poco sportivo pensarlo, e troppo facile la polemica, ma quello successivo, quello dei trent'anni di grande crescita, i “Trenta Gloriosi”. In quegli anni con una crescita elevata ed un tasso di sindacalizzazione molto alto, fu costruito lo stato sociale – in Italia emettendo debito pubblico. Infine, allora le diseguaglianze erano al minimo del secolo.
Per “neoliberismo” di seguito intendiamo per l'Europa una vicenda molto recente: l'austerità combinata alle riforme del mercati del lavoro in un mondo globalizzato. Il termine “liberismo”, così come “neo-liberismo” sono termini afferenti la battaglia delle idee in campo politico e mediatico, ma non sono dei termini scientifici. La definizione che abbiamo data sembra onesta ed utile per procedere.
I nostalgici dei Trenta Gloriosi seguono in maniera inconsapevole un punto di vista, che in altri casi trovano orrendo, quello “etnocentrico”. Nei Trenta gloriosi i paesi del Secondo Mondo (quelli socialisti), e del Terzo (gli altri fuori dall'Occidente e dal Giappone, e dal socialismo), erano in ben altra condizione: alla povertà si accompagnava la repressione politica. I due eventi epocali sono la caduta dell'Unione Sovietica e lo sviluppo economico della Cina. Il mondo è cambiato, forse non quanto si pensava agli inizi degli anni Novanta, ma è cambiato. Allora alcuni pensavano che, caduto (in Unione Sovietica e nei paesi detti satelliti) o ridimensionato (in Cina) il Socialismo, si fosse definitivamente affermata la Ragione, nella sua espressione – mutuata da Hegel - di società “Cristiano-borghese”. La Storia non finiva più – come nella filosofia della storia di Marx - nel Comunismo, ma si arrestava prima, appunto nella società “Cristiano-borghese” (2).
In questa società ad un certo punto le cose si “mettono peggio”, e da qui lo scatenamento contro il “neo-liberismo”. In breve, si accusa il neo-liberismo di aver tagliato lo stato sociale, di aver reso precario il lavoro, di aver ridimensionato - se non distrutto - la Sovranità, e via elencando. Ossia, di aver distrutto il mondo in cui si viveva sicuri. Alcuni definiscono la società di oggi come “liquida”. Anche in passato il “liberismo” - non ancora “neo” - era sotto accusa, nella forma del complotto “giudo-pluto-massonico”. Si può sorridere, ma, attenzione, si ha anche la versione colta del complotto, quella di Schmitt. Le potenze marittime (anglosassoni) vogliono imporsi su quelle telluriche (l'Europa continentale). Il mare sostituisce la terra, e la nave la casa. Si ha lo sradicamento. Gli Ebrei, come portatori storici dello sradicamento, diventano il nemico “metafisico”. L'ultimo stadio dello sradicamento è l'Aria, che può essere immaginata come la figura della globalizzazione. Essa è ovunque e inibisce ogni identità (3).
Fatta la premessa che cosa affermano gli avversari del neoliberismo?
Nell'euro area, il punto di vista prevalente – che abbiamo deciso di etichettare come “neo-liberista” - sostiene che i bilanci pubblici vanno portati in pareggio. Una volta in pareggio, non si ha più emissione di obbligazioni, quindi il debito pubblico diventa - come volume - costante. Crescendo l'economia, il peso del debito scende fino a raggiungere un livello che è sufficiente per averlo sotto controllo. Livello che, per convenzione, è intorno al 60% del PIL. Infine, perché il peso del debito scenda, è necessaria la crescita, con quest'ultima che si ottiene liberalizzando i mercati del lavoro e del prodotti. Il punto di vista prevalente è compatibile con quella che viene chiamata “flessibilità”. Essa può essere vista come emissione di obbligazioni dedicate, oppure come un modo per giudicare il bilancio pubblico non solo in termini puntuali, ma anche facendo i conti sul ciclo, ossia domandandosi quale sarebbe il bilancio pubblico se non fossimo in crisi. I capisaldi del punto di vista prevalente sono comunque che la spesa pubblica va messa sotto controllo, e che si debba varare una “politica dell'offerta”. Il punto di vista prevalente naturalmente ha una complessa trama politica, che trovate esposta qui. La Sinistra - quella che ama chiamarsi “non subalterna al liberismo” - ha una sua ricetta. La “non subalternità” possiamo definirla come un ritorno al mondo antecedente gli anni Ottanta. Ridotta ai minimi termini, il punto di vista della Sinistra “non subalterna” francese è questo.
Ragione 1: il debito pubblico è aumentato non per la crescita della spesa pubblica, che è rimasta più o meno costante, ma per la caduta del gettito fiscale. La caduta del gettito non è figlia della crisi, ma della riduzione delle imposte per i benestanti e per le imprese, riduzione che si è avuta prima della crisi. La riduzione delle imposte si è avuta prima con Chirac e poi con Sarkozy, che hanno portato in Francia il progetto della “politica dell'offerta” abbracciato da Reagan e dalla Thatcher - le famose minori imposte che incentivano l'investimento e i consumi.
Ragione 2: i tassi di interesse sono stati superiori alla crescita nominale del PIL, ciò che ha spinto verso l'aumento dell'onere del debito. Il maggior onere è dovuto alla liberalizzazione dei mercati finanziari. Mentre prima la banca centrale spingeva i rendimenti verso la crescita nominale del PIL, da quando è stata presa la decisione di avere una moneta unica nei primi anni Novanta, non lo fa più, e perciò i rendimenti del debito pubblico sono diventati “liberi”. Poiché, fino a non molto tempo fa, si è avuta una caduta dell'inflazione maggiore della caduta dei rendimenti nominali dei titoli del Tesoro, i rendimenti reali sono cresciuti. I rendimenti sono stati maggiori della crescita del PIL e dunque l'onere del debito è cresciuto, così come è cresciuta l'emissione di obbligazioni per pagarlo.
Ragione 3: l'evasione fiscale, da intendere come “fuga verso i paradisi fiscali”.
Sommando gli effetti delle tre ragioni, si ottiene un minor debito pubblico, più precisamente un debito pubblico dimezzato. Se non ci fosse stata la riduzione delle imposte, la fuga verso i paradisi, e se il costo del debito pubblico fosse stato in linea con la crescita del PIL nominale, il Debito/PIL francese, invece di essere intorno al 100%, sarebbe stato intorno al 50%. La ricetta è ovvia. Per evitare i tagli della spesa pubblica sociale, che non ha, secondo la Sinistra “non subalterna”, alcuna responsabilità, per il controllo del debito, si alzino le imposte, si svuotino i paradisi fiscali, e si imponga alla banca centrale di governare il costo del debito (si noti che la terza richiesta è ormai soddisfatta dalla banca centrale).
Dinamismo versus equilibrio
Non si è trovato ancora un strumento migliore dei mercati per gestire la complessità economica – l'organizzazione della divisione del lavoro e la ricerca di informazioni. L'espressione mercati è però neutra, quasi una modalità del “politically correct”. I mercati possono esistere con diversi sistemi, basta, infatti, visitarli nei villaggi africani. Laddove i mercati hanno dato il meglio è col Capitalismo, che possiamo definire – seguendo Schumpeter - come quel sistema in cui le decisioni di investimento sono prese in maniera decentrata facendo leva sul credito – oggi potremmo aggiungere, facendo leva sul credito e sui mercati finanziari. Non si ha l'ordine del Piano, infatti, il sistema è disordinato, ma il suo agire, a differenza del Piano, aumenta l'offerta di innovazioni. Il getto continuo di innovazioni è la “distruzione creatrice”. Il costo del getto continuo di innovazioni è il disordine/insicurezza. Il beneficio è l'offerta di beni e servizi sempre nuovi fra cui scegliere. I cittadini-consumatori beneficiano delle innovazioni, mentre i cittadini-produttori debbono cambiare competenze in continuazione.
Il disordine – il frutto delle innovazioni - non è catturato dall'edificio dell'economia mainstream. Secondo quest'ultima, lo scopo ultimo dell'economia - intesa come scienza e come pratica - è la massimizzazione di un obiettivo – sia di produzione, sia di benessere. Ed è una massimizzazione (e non un massimo), proprio perché si ha il vincolo delle risorse (i fattori produttivi) che sono date, così come, in prima battuta, è data anche la tecnologia. L'economista fa i conti e quindi rende pratica la teoria, a seconda di quel che gli chiede il politico (che stabilisce la funzione obiettivo). L'economista è il tecnocrate del politico, che è, a sua volta, il decisore finale in un mondo di risorse date e di tecnologia invariata. La tecnologia può variare se si investe in Ricerca e sviluppo, oppure nella maggior istruzione. Un passaggio essenziale di questo punto di vista è che tutto sia conoscibile. L'ignoranza diventa il frutto (scelto in modo razionale) del costo dell'informazione.
Bene, a questa visione “dirigista” si contrappone quella “austriaca”. L'ignoranza austriaca non dipende dalla scelta di risparmiare i costi dell'informazione, bensì dal “non sapere”. Non c'è quindi una distribuzione di probabilità, grazie alla quale il tecnocrate propone le scelte al Principe. C'è solo il rischio, il viaggiare in “terra incognita”. Ed ecco che arriva l'imprenditore. L'imprenditore “scopre” le informazioni. Le informazioni sono disperse e lui le mette insieme, senza conoscere il risultato finale. L'innovazione non è “spremere” i fattori disponibili, bensì combinarli in maniera diversa, senza conoscerne l'esito. La combinazione diversa dei fattori mentre crea instabilità in un settore, ne crea un'altra in altri. Se si crea la posta elettronica, avanza la frontiera tecnologica, e si aprono possibilità in altri settori. Per esempio, si inventa il telefonino e nasce Uber. Lo squilibrio diventa perenne.
Non si ha l'equilibrio, come nell'economia mainstream, laddove nessuno degli operatori cambia il proprio comportamento, perché non può - dal momento che le innovazioni sono note e quindi facilmente imitabili. Nell'economia mainstream il profitto non esiste, si ha solo la remunerazione del capitale. E se profitto esistesse, esso sarebbe, proprio per la facilità ad imitare, il frutto di un qualche privilegio. Il profitto “austriaco”, invece, remunera l'imprenditore in base al contributo al benessere collettivo, ossia il profitto è proporzionale alla diffusione del benessere dei consumatori.
Chi non ama il neo-liberismo è facilmente uno che ne ricava dei vantaggi come consumatore, ma ne perde – immediatamente o come aspettativa - come produttore. Il mondo è liquido due volte: come consumi, che variano, e come lavoro. Non c'è più il “posto di lavoro”, ma il lavoro. Si divaricano i lavori, quelli che richiedono un grosso investimento (in capitale umano), e quelli che non lo richiedono. I primi sono ben pagati, i secondi si avvicinano ai salari di sopravvivenza. La diseguaglianza aumenta - si forma una sorta di società neo-signorile - e si desidera il ritorno al passato invocando il ritorno dei Sacerdoti, coloro che si occupano del bene altrui rinunciando al proprio, che sono poi i politici coadiuvati dagli economisti che riportano in carreggiata l'economia grazie alla spesa ed alle entrate pubbliche.
Un mondo noioso senza duci
Dopo la Seconda guerra mondiale, avuta l'esperienza del Popolo che si riconosceva direttamente nel Leader, con la volontà politica che saltava tutti i pesi e contrappesi della democrazia liberale, si pensò di ricostruire un mondo “noioso”. Un mondo dove i leader – o meglio i “duci” - non c'erano più, e tutto si svolgeva con il ritorno alla democrazia delegata di stampo liberale – Parlamento, Corti Costituzionali, ma con una grande novità: lo “stato sociale”, ossia la combinazione di un sistema liberale classico con l'intervento sociale dello stato. Nel progetto si riconoscevano i cristiano-sociali, i socialdemocratici, ed i liberali. Queste sono le forze ancora al governo in Europa. Non si avevano i fascisti, e non si avevano i comunisti. Entrambi volevano lo stato sociale, ma non la democrazia liberale. Con una differenza: per il primi il protagonista era la Nazione, per i secondi il Proletariato.
Questo sistema liberale e sociale per affermarsi aveva bisogno di vincere le elezioni. In un sistema a suffragio universale le elezioni si vincono non per le scelte degli ottimati, ma per le scelte del popolo. E il popolo votava per questo progetto, con le parrocchie, i sindacati, e i partiti socialisti come veicoli del consenso. Queste strutture della società civile svolgevano il ruolo pedagogico di guidare il popolo, che, all'epoca, aveva un grado di istruzione piuttosto limitato. Con lo sviluppo che favorisce il sorgere dell'individuo cade il controllo culturale e politico delle parrocchie, dei sindacati, e dei partiti. Il mondo è diventato liquido ed individualista. Il disagio non si controlla più facilmente, tanto più che l'economia cresce poco, e, con la minor crescita, anche la mobilità sociale si raggela.
Il disagio che si manifesta “a destra” - come accade con il Front National e la Lega - come può essere incanalato in un sistema politico affinché non diventi “ducista” e “nazionalista”? Il disagio che si manifesta “a sinistra” - come si è manifestato con Syriza e Podemos - come può essere incanalato senza un ritorno alla spesa pubblica pervasiva volta ad attenuare gli effetti dirompenti della modernizzazione? Da notare che sia a destra sia a sinistra si vuole la spesa pubblica, nel caso della destra finanziata anche con moneta nazionale, nel caso della sinistra finanziata in euro.
Siamo sicuri che, una volta che la spesa pubblica sia stata espansa con successo, essa rientri? Pensiamo che la spesa, svolto il suo compito "propulsivo", poi si riduca? Oppure pensiamo che la spesa pubblica per sua natura - essa è “catturata” dai gruppi organizzati - crescerà in modo perpetuo? Questo è un aspetto critico delle politiche di ritorno alla spesa pubblica, finanziata o meno con la moneta nazionale. Ma ne abbiamo un altro di maggior rilievo. Lo sviluppo economico – quello etichettato come neo-liberista - è tanto maggiore quanto minori sono i vincoli sia nel mercato dei prodotti sia in quello del lavoro. Se non vi sono troppi vincoli, le innovazioni si diffondono facilmente, perché si hanno meno ostacoli nella diffusione dei prodotti, che, a loro volta, possono materializzarsi solo se la forza lavoro si sposta dai vecchi ai nuovi settori. Senza austerità – senza il controllo della spesa pubblica pervasiva - le riforme sono rimandate, perché c’è abbastanza domanda per mantenere le cose come sono. Alla lunga, però, e in un mondo di economie aperte, non si cresce. Perciò il controllo della spesa pubblica accompagnato dalle riforme che rendano liquida l'economia reale sono la sola strada per la crescita.
L'austerità – intesa come vincoli di bilancio e come riforme dei mercati – deve essere “venduta” agli elettori. E non è facile, perché tocca gli interessi ed il quieto vivere di milioni di persone. Inoltre, è priva di Pathos. La Nazione come l'Eguaglianza richiamano emozioni forti, mentre i bilanci nazionali in pareggio, insieme alla riforma dei mercati, non generano emozioni forti, forse negli economisti, ma non è nemmeno detto.
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Note
1) Alain Finkielkraut, Noi, i moderni, Lindau, 2006
2) Alexandre Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, 1996
3) Carl Schmitt, Stato, Grande Spazio, Nomos, Adelphi, 2015
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