Il recente successo elettorale di Putin alla Duma russa è molto meno scontato e ovvio di quanto si presenti a prima vista.

 

Il risultato elettorale del voto alla Duma russa del 18 settembre è molto meno scontato e ovvio di quanto si presenti a prima vista. Sulla carta, è un trionfo del sistema costruito negli ultimi 17 anni da Vladimir Putin. In un assetto ormai immutabile da quattro legislature, la camera bassa è composta da quattro partiti: la formazione propresidenziale Russia Unita e le tre liste di "opposizione sistemica", ossia il partito comunista, i "liberaldemocratici" ultranazionalisti di Vladimir Zhirinovsky e la Russia Giusta dell'ex presidente del Senato Serghey Mironov. Russia Unita ottiene il 55% dei voti, superando di 5 punti il suo minimo storico del 2011. I comunisti e Zhirinovsky si contendono il secondo posto quasi ex aequo sotto il 14%, Russia Giusta resta il fanalino di coda con il 6%. Gli altri 10 partiti in lizza nel voto proporzionale che decide la metà dei 450 mandati non hanno superato né la soglia di sbarramento del 5%, né quella del 3% che garantisce il rimborso delle spese elettorali da parte dello Stato, rimanendo a percentuali da errore statistico, inclusi i liberali di Yabloko e di Parnas, le uniche formazioni che hanno apertamente contestato il Cremlino e in particolare l'annessione della Crimea. Perfino la reintroduzione del voto maggioritario uninominale per metà dei seggi - abolito nel 2004 nell'ambito della ristrutturazione della verticale di potere dopo la strage di Beslan - non ha scalfito, come molti avevano sperato, il monopolio del partito del potere: Russia Unita conquista quasi tutte le circoscrizioni, e la maggioranza assoluta di 343 seggi (nella Duma precedente erano 238), con soli tre indipendenti che riescono a vincere un mandato.

Il messaggio di questi numeri è inequivocabile: il sistema è sotto il controllo totale del Cremlino, che non ha intenzione di aprire a nessun cambiamento, e a tollerare nessuna voce di dissenso o almeno fuori dal coro. Tutto resta come prima, in un "quadripartitismo" che in realtà articola in discorsi leggermente diversi una totale adesione alla politica del governo, senza alcuna rappresentanza di quel 15% di dissenzienti di orientamento più o meno liberale (in senso occidentale), e di quella quota di scontento - difficilmente quantificabile, ma sicuramente non irrisoria, vista la quantità di proteste di varie categorie e l'alto grado di insoddisfazione socio-economica registrato dai sondaggi - che è stata prodotta dalla crisi economica degli ultimi due anni. Con una campagna elettorale molto povera di promesse - il leitmotiv è stato dato dal premier Dmitry Medvedev, che ha detto ai pensionati crimeani "I soldi non ci sono, ma tenete duro" - e ricca di proposte come quella della presidente del Senato Valentina Matvienko di togliere la sanità gratuita ai disoccupati ("Ciascuno deve portare la propria valigia"), perfino la presidente della Commissione elettorale centrale Ella Pamfilova si è permessa di mostrarsi "sorpresa" sui consensi al governo. "Non riesco a spiegarmi in alcun modo il successo di Russia Unita se non con i numeri che vediamo. Spero che riflettano la realtà. Se qualcuno ha dei dubbi è benvenuto", ha detto commentando il risultato elettorale.

Il discorso dei brogli, che cinque anni fa portò i Moscoviti in piazza e fece vacillare per la prima volta un regime che sembrava monolitico, non è più di attualità. Falsificazioni e manipolazioni sono state registrate a decine, da Ong indipendenti e da osservatori, senza suscitare sorpresa o rabbia in nessuno, salvo il leader comunista Ghennady Ziuganov, che ha accusato esplicitamente l'amministrazione presidenziale di "volerci al terzo posto, deviando il voto con partiti sfornati al Cremlino". L'inamovibile capo del Pc ha sintetizzato quello che con queste elezioni è diventato definitivamente evidente: il risultato elettorale si decide più o meno a tavolino lontano dalle urne. Ancora prima dei brogli, delle schede false e delle "anime morte" nelle liste elettorali, a garantire il risultato sono un sistema mediatico che esclude praticamente le voci alternative, e un sistema giudiziario che espelle gli sgraditi (il partito Progresso del blogger anticorruzione Alexey Navalny non è stato ammesso alle elezioni), unito allo zelo degli amministratori locali che fanno a gara a chi produce la regione più allineata ai desideri del centro. Il sistema premia la compattezza e l'unanimità e penalizza il dissenso, bandito dal Parlamento, dai media e, dopo le manifestazioni del 2011-12, anche dalla piazza. Le valvole di sfogo sono chiuse, e a chi vorrebbe riaprirle arriva il monito del progetto di fondere i vari servizi segreti in un unico superministero della sicurezza, dalla sinistra sigla MGB, in un ritorno al sistema staliniano dopo che le varie agenzie erano state scorporate negli anni Novanta.

Una macchina oliata alla perfezione, apparentemente inscalfibile, se non fosse per un dato: l'affluenza. Ufficialmente si sono presentati alle urne il 48% dei Russi, uno su tre a Mosca e Pietroburgo, la metà in Crimea. Un minimo storico, che ha costretto perfino Vladimir Putin a notare una partecipazione "non altissima". Qualche politologo ha esposto la teoria che il governo aveva incoraggiato l'astensionismo, secondo la vecchia regola che un'affluenza alta di solito corrisponde anche a un voto anti-Russia Unita. La regola occidentale che legge l'astensionismo come sintomo di  fondamentale soddisfazione, e l'alta affluenza come segno di disagio, in Russia funziona al contrario: i contenti sono quelli che vanno a votare, gli arrabbiati restano a casa. Anche perché il sistema ha fatto di tutto per delegittimare il Parlamento, ridotto a "stampante" di leggi scritte al Cremlino, con il Presidente che monopolizza iniziative e responsabilità. La maggioranza a questo punto ha preferito "votare con i piedi". Nella classica triade di Albert Hirschman, il "voice" in Russia è impossibile, il "loyalty" con la fine del barile a 100 dollari non paga più, resta l'"exit", teorizzato dai liberali moscoviti e dai ceti medi emergenti delle grandi città come unica soluzione dignitosa. Parafrasando il vecchio adagio sovietico "voi fate finta di pagarci e noi facciamo finta di lavorare", ora i Russi hanno scelto il modello "voi fate finta di governarci e noi facciamo finta di votarvi".

Apparentemente la situazione ha raggiunto l'ideale di qualunque potere: la Russia rurale e i ceti più poveri e meno istruiti garantiranno il sostegno popolare necessario, nonostante la riduzione del welfare. Quello del 18 settembre 2016 però non è stato una tappa qualunque nel percorso della Russia, ma probabilmente un bivio fondamentale del quale pagherà le conseguenze. Da questo momento, infatti, il Cremlino perde l'unica possibilità - seppure parziale - di ricevere un feedback negativo dai suoi sudditi, in uno scollamento finale tra élite e sudditi. E Putin perde quella che era la sua legittimazione maggiore, lo straordinario consenso popolare. In un sistema autoritario come quello russo la fonte di legittimità maggiore è il Presidente, e la fonte della legittimità del Presidente è quel rapporto di amore e comprensione che ha con il suo popolo, e che ha bisogno periodicamente di una dimostrazione numerica.

Non bisogna però avere fretta di leggere gli astenuti come un potenziale bacino di cambiamento. I numeri di varie regioni mostrano come in molte circoscrizioni i comunisti e i nazionalisti hanno percentuali molto alte, sul 25-30%, e in altre zone il secondo partito è Russia Giusta, una sorta di Russia Unita più critica e sociale, ma certamente non una formazione di opposizione. Perfino a Mosca e Pietroburgo i numeri dei liberali non superano il 10%, ed è logico presupporre che molti degli scontenti vorrebbero non meno putinismo, ma più putinismo, con un'accentuazione del discorso imperiale, nostalgico e militarista. Ma qualunque ipotesi ormai è destinata a rimanere tale, in assenza di un feedback elettorale anche inquinato dalle manipolazioni del governo. Ogni spinta di rinnovamento non potrà trovare sfogo, e paradossalmente consolidando il controllo Putin nello stesso tempo aumenta i rischi personali: in assenza di valvole di sfogo istituzionali lo scontento delle élite - che esiste e continua ad aumentare, come dimostra anche la defenestrazione di una serie di fedelissimi del Cremlino - potrebbe cercare per un "regime change" strade più contorte.