I numeri impressionanti della partecipazione alle primarie (soprattutto di parte democratica). Lo "strano profilo" del candidato repubblicano John McCain, la "strana strategia" dei repubblicani nella corsa alla Casa Bianca. I rischi di Hillary e quelli di Obama. Il timore crescente dei democratici di restare senza un candidato fino a giugno . Mentre si moltiplicano gli appelli a Hillary perché si ritiri dalla competizione.
Siamo a sette mesi circa dalle presidenziali Usa, e i tasselli che rendono questa competizione una delle più imprevedibili degli ultimi anni sono tutti ai loro posti. Il Centro Studi Americani di Roma ha fatto il punto sulla situazione, in una tavola rotonda organizzata in collaborazione con la commissione Fulbright e l'ambasciata degli Stati Uniti. "Trenta milioni di votanti alle primarie, fin qui, con un incremento significativo da parte degli elettori democratici. Sono cifre che fanno impressione in una democrazia che si vorrebbe governata dagli ‘special interests'", spiega Cristian Vaccari, dell'università di Bologna. E alla conta imponente dei votanti va affiancata quella delle donazioni elettorali, che come ricorda il giornalista del Wall Street Journal Gabriel Kahn, "è affidata ad un sistema incredibilmente trasparente. 
Altro che l'Italia (avete mai sentito parlare di chi finanzia la campagna elettorale di Pd e Pdl? Io no, ma ho qualche sospetto)". Per Kahn, "il popolo americano sta donando in proporzioni mai viste. Nel 2004 si totalizzarono circa 880 milioni di dollari a fine corsa, quest'anno andremo oltre il miliardo. La particolarità di questa campagna è che i finanziamenti provengono in larga misura dalla base", cioè da tanti piccoli donatori. Un altro capitolo fondamentale è la corsa al voto degli indipendenti. "Non è solo Obama ad essersi accorto di loro", spiega Vaccari: "c'è anche lo straordinario cambiamento di strategia dei repubblicani, che con McCain puntano ad allargare la propria base all'elettorato centrista anziché motivare di più i propri elettori naturali, come faceva Bush".
E' d'accordo Thomas Mann, della Brookings Institution: "per quanto le sue posizioni su economia e medio oriente alla fine coincidano con quelle di Bush, McCain è il candidato più forte che i repubblicani potessero scegliere". Soprattutto dopo il brutto flop della campagna di Giuliani: "just another newyorker that goes to Florida to die", scherza crudelmente Mann (il gioco di parole è sui tanti pensionati e anziani newyorkesi che ogni anno "migrano" in Florida per passare là gli ultimi anni della loro vita). Per John Fortier, dell'American Enterprise Institute, "McCain è uno strano candidato. Di fatto è un conservatore sul piano dei valori, ma per qualche ragione è visto dalla base repubblicana come un moderato, un centrista". Sul fronte democratico,"è molto probabile che a questo punto sia Obama a vincere la nomination, perché è riuscito a unire il voto afroamericano (contro coloro che non lo ritenevano nero abbastanza), e un certo tipo di élite democratica giovane, istruita, benestante e hi-tech, lasciando a Hillary la vecchia base democratica dei blue-collars, delle contee rurali, e un segmento consistente del voto ispanico".