Mitt Romney, il candidato inevitabile che non appassiona
Se Mitt Romney dovesse vincere le elezioni di novembre, sarebbe il secondo presidente più ricco della storia americana, dopo JFK e prima di George Washington. Lo segnala il Washington Post comparando una serie di statistiche. Tuttavia, a due mesi dall’inizio delle primarie, i repubblicani non sono del tutto convinti di volerlo candidare contro Obama. Lontano dall’esprimere un’alternativa realmente praticabile, frustrato e diviso, il ventre del GOP non ama Romney. E mai come nelle attuali settimane questo sentimento d’istintiva repulsione è forte e percepibile.
Il problema è di semplice spiegazione: l’ex governatore del Massachusetts è in qualche modo vissuto come l’unico candidato possibile, ma non è considerato del tutto credibile dal punto di vista dei valori personali. Da un lato c’è l’ingente fortuna di cui il Romney-businessman dispone; dall’altro c’è il Romney-candidate, che non entusiasma. Come accade con molti esponenti politici dei paesi europei (tra cui anche, va detto, il governo Monti), il suo profilo personale viene vissuto come troppo elitario e distaccato per una reale identificazione emotiva con l’americano medio. Romney può avere le soluzioni, ma non può sentire realmente la condizione della gente comune, la sua sofferenza e le sue prospettive.
Le risorse economiche gli sono già valse molto, durante le primarie, quando si è trattato di affrontare i propri avversari in Stati di dimensioni medie e grandi, dove non basta armarsi di buona volontà e di capacità nel raggiungere alcuni segmenti attivi dell’elettorato – come fa ad esempio Rick Santorum – ma bisogna spendere in organizzazione e mobilitazione. La competizione in Florida si è risolta, il 31 gennaio, con una brillante vittoria di Romney, che aveva gli analisti migliori (in primis Matt Rhoades, il serafico esperto di comunicazione che ha improntato finora la sua campagna a toni rassicuranti e istituzionali), gli spot efficaci, lo slogan giusto, e poteva contare su un elettorato composto anche in buona parte da ex cittadini del Nordest, a lui affini per ideologia e milieu di appartenenza. E poi, quali imprevedibili circostanze dovrebbero prodursi perché un ultraconservatore dell’Est come Rick Santorum possa vincere in stati strategici come l’immensa California o il popoloso New York? Ecco perché Romney.
Negli Stati Uniti avere molti soldi in campagna elettorale aiuta, e rari sono i casi in cui, come ha fatto Obama nel 2008, si riesce a ottenere molto da tanti che danno ciascuno relativamente poco. I repubblicani quindi sono spinti a puntare sul candidato che, razionalmente, ha tutte le carte in regola per rappresentare la migliore sfida possibile al presidente in carica: moderato, elegante, ragionevole. E ricco.
Eppure i sondaggi girano come trottole impazzite: negli ultimi sei mesi, i repubblicani hanno cambiato idea su quale fosse il candidato ideale dieci volte. Una situazione che a memoria d’uomo non si era mai verificata. Romney non convince, e deve incassare anche l’aperta diffidenza del falco conservatore Rupert Murdoch. Il magnate australiano – che su Twitter impazza con alcuni dei messaggi più impudenti e tranchant, nel suo consueto stile – ha scritto: “Romney ha molti cervelli, ma vorrei vedere il cuore e lo stomaco”. E non più tardi del 20 febbraio, con alcuni sondaggi che davano Santorum davanti a Romney addirittura in Michigan, ha commentato: “Santorum sta andando alla grande. I valori contano davvero in America, non sono disprezzati come in alcuni paesi europei. Vinci in Michigan e sarà game over”.
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