Il momento dei mercati finanziari ruota intorno ad alcuni nodi: 1) la politica monetaria statunitense che prima o poi diventerà meno espansiva; 2) gli effetti di una sua minore espansione in futuro sui rendimenti delle obbligazioni – l'effetto per gli investitori – e sul costo del debito pubblico – l'effetto per i cittadini; 3) i segnali di ripresa in Europa e gli effetti sui suoi corsi azionari.

Una politica monetaria ultra espansiva non può durare per sempre, prima o poi i prezzi delle attività finanziarie si dovranno formare sui mercati senza la domanda di origine pubblica (ossia, della banca centrale). Per quel tanto che dura (e ormai sono quattro anni di ultra espansione) si ha un assorbimento di titoli da parte delle banca centrale che porta a tre conseguenze: 1) sono schiacciati i tassi degli strumenti monetari – ci si indebita con la banca centrale fino a quando gli strumenti monetari rendono quanto il tasso di sconto -, 2) sono spinti in alto i prezzi delle obbligazioni – queste sono acquistate dalla banca centrale e quindi tolte in parte dal mercato, e, infine, 3) è schiacciato il costo del debito pubblico e dunque il costo politico delle politiche fiscali. Vedi approfondimento 1.

Possiamo immaginare che senza gli acquisti di obbligazioni da parte della banca centrale - acquisti che, togliendo dal mercato molti titoli, li rende più “rari”, con ciò spingendo in alto i loro prezzi e quindi in basso i loro rendimenti -, i rendimenti sui titoli del Tesoro statunitensi a dieci anni – i Bond - possano salire fino al 3% nel 2013 e fino al 4% nel 2014. E questa non è solo una supposizione: i rendimenti delle obbligazioni decennali statunitensi sono da maggio – da quando Bernanke ha fatto capire che prima o poi la politica monetaria ultra espansiva terminerà - quasi raddoppiati, dal 1,5% circa al 3% circa.

Immaginiamo, come è verosimile, che i tassi e i rendimenti – tutto lo spettro della curva dei rendimenti, ossia la disposizione per scadenza dei titoli del debito – salgano. Immaginiamo che il rendimento medio sia alla fine del 3% - la media fra un 2% a breve termine e un 4% a lungo termine - o di 300 punti base. A questo punto si ha una flessione dei prezzi che è massima per le obbligazioni a lungo termine (come i Bond, e i BTP) e minima per gli strumenti monetari (come i Bills, e i BOT). Tanto maggiore è la quota di obbligazioni a lungo termine, tanto la maggiore la perdita in conto capitale – infatti se i rendimenti offerti alle aste sono maggiori, i prezzi delle obbligazioni emesse devono scendere per equiparare i rendimenti. Vedi approfondimento 2.

L'altra faccia della medaglia del rialzo di tutta la curva dei rendimenti è il maggior costo del debito per i Tesori, che, quando rinnovano e/o emettono nuovo debito, lo debbono pagare di più. Ossia, a parità di entrate tributarie e uscite, si ha un maggior deficit. Se il debito è pari al 100% del PIL – come è ormai ovunque, tranne in Giappone – ecco che il debito, che sale di 300 punti base, costa il 3% in più del PIL. Insomma, il rialzo dei tassi e dei rendimenti mette in difficoltà la politica fiscale.

Insomma, con la fine delle politiche monetarie ultra espansive gli investitori si troveranno ad avere le obbligazioni in portafoglio con dei prezzi più bassi (e dunque, per non perdere in conto capitale, debbono aspettare la scadenza dei titoli). Con la fine delle politiche monetarie ultra espansive i governi dovranno – per sostenere il maggior costo del debito – combinare diversamente le spese e le imposte. O anche combinare il riordino delle spese e delle entrate con dei provvedimenti amministrativi. Vedi approfondimento 3.

Insomma, si capisce perché le banche centrali siano recalcitranti a rendere meno espansive le politiche monetarie. A questa prudenza, per così dire di natura generale, legata al timore che le cose in futuro possano sfuggire di mano, va aggiunto il dubbio che l'economia non stia ancora crescendo in modo tonico, e dunque che oggi non è il caso ridurre gli stimoli monetari. Vedi approfondimento 4.

Se le obbligazioni hanno un futuro (vicino o lontano, non si sa) che possiamo etichettare come “segnato” (vale a dire i rendimenti saliranno, soprattutto nei Paesi che sono stati percepiti come “porti sicuri”), per le azioni le cose possono essere diverse: le azioni europee scontano, a differenza di quelle statunitensi, una crescita modesta, per cui bastano dei segnali di crescita credibili per renderle attraenti. Vedi approfondimento 5.

Le obbligazioni decennali tedesche rendono quasi il due per cento, mentre quelle italiane rendono il 4,5% - ossia, lo spread è di 250 punti base circa. Il rendimento delle obbligazioni italiane è in linea con quello antecedente la crisi. Se il rendimento delle obbligazioni tedesche tornasse a livello ante crisi – quindi sopra il tre per cento – lo spread sarebbe di circa 100 punti base, se il rendimento italiano resta invariato, perché si hanno delle politiche fiscali credibili. Perciò, con politiche fiscali italiane credibili (come dicono gli statunitensi a big if), e una prima normalizzazione dei rendimenti tedeschi (un rialzo contenuto, che, piano piano, potrebbe arrivare) si avrebbe una combinazione di investimento. Long di BTP e short di Bund, ossia si guadagna con i BTP - contando sulla tenuta dei loro prezzi e l'incasso delle cedole -, e si si guadagna se i prezzi dei Bund scendono, perché si ha una posizione scoperta.

Se ci fosse una ripresa anche contenuta in Europa, le sue azioni sarebbero attraenti – un primo tema di investimento. Se la politica fiscale italiana fosse credibile, si potrebbe – il secondo tema – investire attraverso il succitato long-short.

Approfondimento 1. Sul versante dei titoli pubblici sia la Banca Centrale d'Inghilterra (http://www.linkiesta.it/debito-pubblico-banche-deficit) sia quella del Giappone sono intervenute con acquisti massicci (http://www.linkiesta.it/banche-centrali-politica). La Banca Centrale Europea, che segue il Fiscal Compact (http://www.linkiesta.it/cosi-il-giappone-combatte-lo-sciopero-del-debitore), non è intervenuta in misura massiccia in acquisto dei titoli di stato, ma ha finanziato le banche di credito ordinario – soprattutto quelle spagnole e italiane - che li compravano. Vale a dire, la Banca Centrale Europea è intervenuta lo stesso, ma in modo indiretto (http://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/ricerche/1447-long-term-refinancing-operations.html).

Approfondimento 2. Secondo i calcoli della Banca dei Regolamenti Internazionali si avrebbero delle perdite notevoli (si veda il grafico I.3 a pagina 9: http://www.bis.org/publ/arpdf/ar2013e1.pdf ). Nel caso del Giappone, che ha un debito pubblico sbilanciato sul lungo termine, con un debito enorme pari al 200% del PIL – si avrebbe una perdita in conto capitale sullo stock di obbligazioni pari al 40% del PIL. Per l'Italia la stima è pari al 20% del PIL. Attenzione, la perdita è “figurata”, ossia si ha con i prezzi correnti registrati come tali a bilancio, perché alla scadenza le obbligazioni sono rimborsate alla pari.

Approfondimento 3. Si possono avere dei rendimenti inferiori a quelli che si formerebbero liberamente nei mercati attraverso l’imposizione di quote minime di obbligazioni pubbliche nei bilanci delle banche e delle assicurazioni. È un modo per controllare il costo del debito pubblico crescente, complementare al taglio delle spese e/o all’innalzamento delle imposte (http://www.centroeinaudi.it/ricerche/vecchiacci-metria.html). Il nome di questi provvedimenti è quello della «repressione finanziaria», che ha ridotto nel secondo dopoguerra l’onere dei debiti pubblici (Carmen Reinhart, M. Belen Sbrancia, The Liquidation of Government Debt, NBER, 2011). Questa via d'uscita solleva la questione dell’«eutanasia del rentier» – dello schiacciare la forza negoziale dei detentori di capitali «improduttivi». Insomma, riapre il dibattito nato negli anni Trenta.

Approfondimento 4. Il ritiro dei lavoratori scoraggiati dalla forza lavoro, la crescita relativa degli anziani fra gli occupati (http://research.stlouisfed.org/fred2/series/LNS12024230), e la debolezza contrattuale dei lavoratori poco qualificati (http://www.zerohedge.com/news/2013-09-06/220-years-jobs-jobs-jobs) non sono dei problemi di pertinenza della Banca Centrale. La quale – di fronte a questi problemi “strutturali” – può benissimo arrivare alla conclusione che non saranno gli acquisti di titoli di stato a migliorare la condizione dei disoccupati e degli occupati deboli. E dunque che è meglio cercare di evitare i danni prodotti da una “bolla” sui mercati finanziari, iniziando a smettere di comprare obbligazioni (http://economistsview.typepad.com/economistsview/2013/09/fed-watch-employment-reports-muddies-the-policy-outlook.html). Sulla nascita della “bolla” si veda: http://www.centroeinaudi.it/lettera-economica/articoli-lettera-economica/asset-allocation/3433-torna-l-irrational-exuberance.html.

Approfondimento 5. Seguo il ragionamento di Giuseppe Russo (http://bepperusso.altervista.org/what-happens-to-the-us-stock-market-if-the-recovery-slows-down/). Se le azioni hanno un rendimento (dividendo su prezzo) del 4% e se le obbligazioni del Tesoro (cedola su prezzo) hanno un rendimento del 4%, allora il valore attuale perpetuo dei dividenti futuri è pari a 1, ossia la Borsa sconta solo le cedole, che non possono crescere, mentre non sconta alcuna crescita dei dividendi, che, al contrario, possono crescere. Prendiamo il rendimento delle obbligazioni statunitensi e tedesche (in media storica, quello corrente è troppo basso) e confrontiamolo con il rendimento corrente delle azioni statunitensi ed europee. Il rendimento corrente delle azioni statunitensi è del 2% e il rendimento storico (mediano) delle obbligazioni è del 4%. Il rendimento corrente delle azioni europee è del 3% e il rendimento storico (mediano) delle obbligazioni tedesche è del 3,5%. Dunque nel caso statunitense la crescita economica attesa (implicita nei differenziali di rendimento) è pari al 50% del valore corrente delle azioni (1-(2%/4%)=50%), mentre nel caso europeo la crescita economica attesa è pari al 15% del valore corrente delle azioni (1-(3%/3,5%)=15%).

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