Delhi val bene una lettera. È possibile che l’abbia pensata così Feroze Jehangir Khan, giornalista e politico indiano, quando nel 1942 riuscì a sposare la donna che amava. Lui: nato a Mumbai, di agiata famiglia parsi, quindi di origine iraniana e di religione zoroastriana. Lei: indù, ricca e potente. Lei: Indira, figlia del Pandit Nehru, ai tempi importante esponente del movimento indipendentista indiano. Lei, ovvero la futura Indira Gandhi.
Gli europei hanno dato sempre per scontata la diretta discendenza tra il Mahatma Gandhi e l’attuale famiglia, omonima, al potere in India. No, non è proprio così.
Quello tra Indira e Feroze fu certamente un matrimonio d’amore. Osteggiato dal padre di lei, finché lo stesso Nehru ebbe un’idea geniale. Si rese conto che con quella unione la sua famiglia avrebbe potuto dominare il Paese per generazioni. La madre di Feroze infatti, per uno scherzo del destino, si chiamava di cognome Gandhy. Con la Y! Nehru andò dal suo futuro genero e gli impose di prendere il cognome della madre e di cambiarne la lettera. «Dalla Y alla I. Che ti costa?» può avergli detto una cosa del genere.
Ferose, per amore – ma è lecito credere anche per un discreto interesse di potere – non ci ha pensato due volte. Così si è preso la donna che amava e ha garantito alla sua discendenza il dominio del Paese. Niente male per il rappresentante di una minoranza religiosa ghettizzata in quella che all’epoca era Bombay. I parsi in India hanno sempre goduto di una certa agiatezza. Questo è vero. Senza però mai emanciparsi. Nehru, grazie a Feroze, si prese anche il loro sostegno. Oggi gli zoroastriani di Mumbay possono vantare qualche traccia del loro sangue nella “famiglia reale” indiana.
Continuità e alleanza strategica. Fu questo il cocktail che portò Nehru a dare il suo assenso al matrimonio. Oggi, Rahul Gandhi, vice presidente del Partito del Congresso fresco di nomina, appartiene alla quarta generazione dei Kennedy d’India. Una famiglia che non è rimasta immune alle critiche più feroci. E che di generazione in generazione è andata degradando in termini di carisma politico. Senza che il potere dinastico venisse intaccato.
Jawaharlal Nehru è passato alla storia per aver messo in pratica le utopie gandhiane. Facendone un compromesso con la realtà dell’India post indipendenza. I piani quinquennali introdotti dai suoi governi scimmiottavano quello dell’alleata Unione sovietica. Ma il non allineamento, posizione ufficiale dell’India durante la guerra fredda, collideva con questa ammirazione verso l’Urss. La riforma agraria e le accelerate sul fronte dell’industrializzazione non risolsero il problema della povertà, della crescita demografica e della siccità. Questo perché la classe dirigente di Delhi, prima alleata con gli inglesi, si era emancipata da Londra, ma non dalle sue eterne tradizioni di dominio sugli afflitti e sulle caste inferiori. Dell’establishment indiano, un’aristocrazia terriera fatta e finita, facevano parte Gandhi e Nehru. E anche il Ghandy con la Y.
Indira Gandhi seppe ereditare le scaltrezze paterne. Il suo punto debole non era far passare l’India come il futuro Bengodi. Bensì non saper resistere alle tentazioni di un autoritarismo familistico e violento. Fu perché mal consigliata dal figlio Sanjav che Indira impose la legge marziale e nazionalizzò una decina di banche d’affari. E fu a causa del suo pugno di ferro contro la minoranza sikh che nel 1984 venne assassinata.
I Gandhi che hanno raccolto l’eredità del Nehru e di sua figlia si sono dimostrati essenzialmente degli improvvisatori politici. Già Sanjav Gandhi non aveva la stoffa del governante. Eppure la madre stravedeva per lui. Al punto da non sapergli negare prebende e appalti. Il fratello Rajiv è ricordato per il matrimonio con l’italiana. Sonia Gandhi, attuale Caterina de’ Medici a Delhi, è l’emblema di come una dinastia sempre meno politicamente “smart” sia riuscita a tenere saldo nelle proprie mani il timone della potenza indiana. Non tanto per la linea di governo. Piuttosto perché onnipresente in tutti gli interessi politici, economici e culturali.
Parlare oggi del potere dei Gandhi significa addentrarsi in un banco di nebbia. Il loro peso politico è rappresentato dal Partito del Congresso. Di cui Sonia è presidente e il figlio Rahul il suo vice. La figlia, Priyanka, tende a restare più nell’ombra. Anche se l’inchiesta aperta la scorsa settimana sugli appalti illeciti in Rajastan, gestiti dal marito, Robert Vadra, ha dimostrato che il backstage della famiglia è tutt’altro che trasparente.
Tuttavia i Gandhi in politica al momento occupano le seconde linee. Fino alle elezioni del 2014 infatti, l’incarico di primo ministro resterà nelle mani di Manmohan Singh. Dopo quella data, ammesso e non concesso che il Congresso si confermi partito di maggioranza, non è scontato che la leadership dell’esecutivo passi direttamente a Rahul. Troppo giovane. Dicono di lui. Ha 43 anni. Troppo italiano, forse addirittura cattolico e omosessuale. Spifferano i più maligni. Accezioni, le ultime due, intollerabili per gli ultra conservatori indù che dominano Congresso e Paese.
Dei Gandhi, sempre per restare nel mistero, non si conosce il patrimonio. La stampa stima per Rajiv una ricchezza personale di circa 2,5 miliardi di dollari. Non si può dire che sia Paperone. Almeno in rapporto a Mukesh Ambani, l’uomo più ricco dell’India, che ha in tasca 29 miliardi di bigliettoni. D’altra parte sono le articolazioni degli investimenti familiari che non si capiscono e che per questo lasciano turbati. Conti in Svizzera, ovviamente, legami con i servizi segreti. Non solo quelli nazionali. Il famoso legame con l’Italia da parte di Sonia. Promiscuo per chi la vuole calunniare. Inconsistente nella realtà. Se non sapessimo che tutta la famiglia è da sempre un’abile tessitrice, potremmo sospettare in effetti che Sonia Gandhi abbia importato in India la disinvoltura degli affaristi italiani. Come Caterina de’ Medici nella Francia del Cinquecento. Ma non è così.
La parte ancora più avvincente sono sempre i Gandhi a controllare anche una frangia dell’opposizione al Partito del Congresso. La vedova di Sanjav e il figlio Varun, sono infatti esponenti importanti – e altrettanto chiacchierati – del Baratiya Janata Party.
E forse è proprio questo il potere dei Gandhi oggi. Non è governare a Delhi. Oppure fare i soldi. Bensì avere la certezza che il proprio cognome, con quella “I” che rimanda erroneamente al Mahatma, sia presente ovunque. In parlamento, nei consigli di amministrazione, sui giornali. Forse non è quello che il Nehru sperava. Però la saga va avanti. (continua -2)
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