Non avendo ormai più effetto il taglio dei tassi di interesse nello stimolare l’economia degli Stati Uniti, uno potrebbe pensare di poter evitare la (non possiamo escludere forte) recessione se compensasse la variazione (in positivo) del risparmio del settore privato (dovuto alla caduta dei consumi e degli investimenti) con una variazione (in negativo) del risparmio del settore pubblico, ossia se si incrementasse il deficit dello stato. Supponiamo che il deficit pubblico statunitense cresca proprio quanto si stima salgano i risparmi del settore privato. Dovrebbe crescere nell’ordine dei 750 miliardi di dollari. Il deficit corrente è nell’ordine dei 450 miliardi di dollari. Si arriva intorno ai 1.200 miliardi di dollari, un numero pari al 8% del PIL. Le emissioni di nuove obbligazioni per finanziare il deficit dovrebbero quasi triplicare, e questo senza contare le obbligazioni che vengono emesse, come quelle del piano Paulson, per salvare il sistema finanziario. Insomma, le obbligazioni del Tesoro crescono come conigli.
Grazie alla fabbrica di conigli, tutto sembra poter funzionare, ma ci sono degli aspetti poco discussi ma intriganti. Il maggior deficit pubblico si suppone che stimoli i consumi. Ossia, uno, incoraggiato dalla domanda pubblica che gli stabilizza il posto di lavoro e quindi il reddito, torna a consumare come prima. È però anche vero che la stessa persona dovrebbe pensare che in un futuro non molto lontano dovrà incominciare a pagare delle maggiori imposte, perché il debito pubblico, e quindi le cedole da pagare sullo stesso, sono cresciute molto. Se aumenta i propri consumi oggi, li diminuirà domani. Se il risparmio positivo del settore privato statunitense sarà nella media del 2009 intorno al 5%, con quello del settore pubblico negativo ed intorno al 8%, allora il disavanzo con il resto del mondo, che è pari al saldo dei due risparmi domestici, sarà intorno al 3%. Il resto del mondo dovrà quindi continuare a comprare il debito pubblico statunitense, se vorrà evitare una crisi finanziaria e reale.
Negli ultimi giorni dal Giappone, una volta il maggiore creditore degli Stati Uniti, ed ora il secondo creditore dopo la Cina, si levano delle voci, da Kazuo Mizuno, capo economista della Mitsubishi Secutiries, e da Eisuke Sakakibara, ora semplice professore, ma una volta vice ministro delle Finanze e potentissimo “puparo” dello yen, che richiedono l’emissione di obbligazioni del Tesoro denominate in valute diverse dal dollaro, nella fattispecie in yen. Un fatto che ricorda i tempi di Carter quando, nel 1978, fu richiesto agli Stati Uniti di emettere obbligazioni in marchi e franchi svizzeri, i “Carter Bond”. Un fatto economico e politico di grande importanza, non proprio “noccioline” si potrebbe dire. Un segnale di sfiducia nel dollaro, o, come avrebbe detto sornione il Generale De Gaulle: la presa d’atto che gli Stati Uniti godono di un “privilegio esorbitante”, ormai ingiustificato, nel battere l’unica moneta internazionale.
Infatti, se gli Stati Uniti emettono obbligazioni in dollari, alla scadenza, le rimborsano in dollari. Per chi sottoscrive il cambio del dollaro con lo yen alla scadenza delle obbligazioni diventa importante, quanto il tasso di interesse sulle obbligazioni stesse. Se, invece, gli Stati Uniti emettono le proprie obbligazioni in yen, alla scadenza, devono rimborsarle in yen. Per chi, giapponese, sottoscrive non rileva più il tasso di cambio, ma solo il tasso di interesse. Se questo è superiore a quello che otterrebbe nel proprio paese, allora le può sottoscrivere. Quale sia l’andamento del cambio diventa un problema solo statunitense. Se dollaro in futuro si indebolisse in rapporto allo yen, il valore dei crediti giapponesi, se in dollari, scenderebbero in yen, ed i giapponesi, ma anche i cinesi, avrebbero meno yen o yuan per ogni dollaro che hanno comprato.
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