Malgrado le rassicurazioni fornite all'Unione Europea, l'Ungheria sembra ritornare nell'orbita russa
A fine febbraio, fatto abbastanza insolito, il premier ungherese Viktor Orbán ha ospitato il presidente russo Vladimir Putin a Budapest. Ufficialmente, nulla più di un incontro protocollare: il leader del Cremlino si sarebbe limitato a ricambiare la visita di Stato in Russia di pochi mesi fa. Ma considerando il quadro internazionale e le relazioni intercorrenti tra i due, vi sono fondate ragioni per asserire che le parti siano reticenti.
Rivelatrice in tal senso è la tempistica. La visita seguiva di poco il vertice di Minsk sul conflitto ucraino, in cui Germania e Francia, nella loro azione mediatrice, miravano anche a rappresentare una UE finalmente compatta nel fronteggiare le continue intromissioni di Mosca a sostegno delle forze filorusse. In quest'ottica, la cancelliera Merkel si era recata a Budapest all'inizio di febbraio, cercando di ottenere da Orbán il rispetto delle sanzioni a Mosca, promettendo investimenti ma minacciando anche ritorsioni. Sin qui, il premier ungherese ha fatto da sponda al Cremlino. Si è persino spinto a mobilitare la minoranza magiarofona in Ucraina a sostegno del candidato filorusso alle presidenziali, vinte poi dall'europeista Poroshenko.
Stavolta, Budapest ha fornito ampie e convincenti rassicurazioni, fanno sapere Berlino e Bruxelles. Orbán è però un tattico spregiudicato che ama giocare su più tavoli. A quello russo ha iniziato a sedersi dopo la schiacciante vittoria elettorale del 2010, ereditando un'Ungheria messa in ginocchio dalla crisi internazionale, simile a una Grecia ma senza l'euro (Figura 1), al cui capezzale si alternavano nervosamente i Paesi UE, preoccupati di recuperare i crediti, temendo il contagio. Il che aveva portato i peraltro apatici governi socialisti magiari a correre a chiedere un prestito di 16 miliardi di dollari al Fondo Monetario Internazionale.
Nel 2013 il governo Orbán è riuscito pagare l'ultima tranche del debito ma seguendo una ricetta opposta rispetto a quella prescritta da Washington. Il leader, che negli anni giovanili aveva animato il dissenso antisovietico nell'Ungheria kadarista e propugnava il liberalismo anglosassone, sta adottando un nazionalconservatorismo al gulyás ispirato a quello dell'ex KGB Putin in Russia e attuando un giro di vite sulle libertà economiche e civili. Mosca osserva l'allievo con compiacimento, essendo la frammentazione dell'UE parte dei suoi interessi strategici. L'apparente ritorno dell' Ungheria nell'orbita russa ha comportato un miglioramento dello scambio commerciale, anche se i progetti più sostanziosi sembrano fumo negli occhi.
Uno è (era?) il South Stream, un gasdotto che dovrebbe portare il gas siberiano all'Europa centrale attraverso il Mar Nero e le filorusse Bulgaria e Serbia, schivando la riottosa Ucraina (Figura 2). L'Ungheria avrebbe tratto giovamento dai prezzi di favore e dal pedaggio per il transito delle tubature. Ma fin dall'inizio, nel 2007, il progetto era parso la classica tela di Penelope, fino alla decisione della russa Gazprom, il primo dicembre 2014, di sospenderne la costruzione "a tempo indeterminato". Decisivi a riguardo il crollo del prezzo del gas e le pressioni fatte da Bruxelles su uno Stato membro come la Bulgaria. Più attuabile l'ammodernamento e l'ampliamento della centrale nucleare di Paks, nell'Ungheria meridionale, costruita con tecnologia sovietica quando il Paese era ancora nel Patto di Varsavia. Malgrado le pressanti richieste di Budapest, l'impianto è stato snobbato da Bruxelles, che ha negato i finanziamenti ritenendo la struttura obsoleta. D'altra parte, l'Ungheria ha aderito al progetto Eastring, lanciato dalla Slovacchia come opzione per diversificare le rotte di approvvigionamento del gas in Europa. Secondo la proposta, Eastring porterà il gas dal confine slovacco-ucraino al confine bulgaro-turco.
Il successo momentaneo dell'economia ungherese poggia sulle rinazionalizzazioni e su un sistema di premi e tassazioni al limite della vessazione nel mercato pubblico, verso gli enti creditizi, le assicurazioni e le aziende di telecomunicazioni, specialmente se controllate da stranieri. Oltre alle gabelle, i media critici scontano la limitata possibilità di accesso al mercato pubblicitario, controllato da agenzie governative. Inoltre, Orbán ha innalzato nel 2013 la tassa sulle transazioni finanziarie dallo 0,3 allo 0,6% sui pagamenti in contanti e dallo 0,2 allo 0,3 % sui trasferimenti tra conti, abolendo contestualmente il limite minimo di 6000 fiorini. Il trionfale bis alle legislative del 2014, ritenute non del tutto libere, ha beneficiato della decisione di imporre il risarecimento alle banche che avevano consigliato ai richiedenti credito il carry trade a ridosso della crisi. Meno azzeccata la proposta di tassare internet, che ha scatenato le proteste in cui spiccavano l'effervescenza della società civile e l'afasia dei socialisti.
Ma l'approdo al governo di una Syriza magiara non è alle viste. L'economia ha ripreso a crescere e le classi medio–basse ricominciano a spendere i risparmi che tenevano cuciti nel materasso. Nel 2014 il PIL ha fatto un balzo del 3,5% (Figura 3) rispetto all'anno precedente, registrando la terza migliore performance UE, alle spalle di Irlanda e Polonia, a fronte di una media complessiva poco al di sopra l'1%. Per dire, le economie più forti, Germania e Francia, si sono attestate rispettivamente all'1,2 ed allo 0,4%. Secondo le previsioni, la tendenza positiva per l'Ungheria dovrebbe continuare anche nel 2015 e nel 2016, ma con numeri più contenuti: del 2,5 nel primo anno e del 2,0% nel secondo. Il motore di questi numeri rimane la domanda interna, con uno spostamento dagli investimenti ai consumi privati, mentre il commercio con l'estero cala lentamente ma costantemente; al contrario crescono le importazioni. Per contro, la disoccupazione sembra essersi stabilizzata al 7-8% (Figura 4), ma a fronte di una forte immigrazione della manodopera, in buona parte qualificata.
In prospettiva, il rischio maggiore è quello di una stretta creditizia, dal momento che il debito rimane per la maggior parte nelle mani degli stranieri. Ciò condurrebbe ad un deprezzamento del fiorino e ad un indebolimento del bilancio annuale del settore privato. Stante un'inflazione sotto controllo, l'indebolimento della domanda esterna potrebbe portare ad una minore crescita e ad una maggiore inflazione.
Ma i problemi vengono anche dal sodale moscovita, sia nel caso in cui la situazione dovesse aggravarsi a Kiev, sia per la crisi finanziaria russa, dovuta al crollo del prezzo del petrolio, deprezzatosi del 50% tra giugno e dicembre 2014. Ciò ha avuto conseguenze dirette sul rublo, che ha perso il 20% del suo valore il 16 dicembre, quando ci volevano 100 rubli per un euro (Figura 5), dopo che per anni il cambio è stato attorno ai 40, mentre oggi ne servono 69. Allo stato attuale, non si può prevedere se questa crisi impedirà a Mosca di esercitare appieno la sua influenza tanto nel conflitto ucraino quanto nelle vicende interne alla UE. Circa quest'ultimo aspetto, pare tuttavia difficile che Putin possa fungere da polo di attrazione verso altri Paesi membri dall'economia boccheggiante, tra tutti la Grecia, e lo stesso Orbán potrebbe tornare a guardare a Bruxelles con curiosità.
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