Il Regno Unito stesso, inteso come nazione, esce in qualche modo sconfitto dal referendum del 23 giugno e addirittura vede ora messo in discussione il suo futuro

La storia è fatta di piccoli passi dell'uomo e di grandi passi dell'umanità. Il voto britannico dello scorso 23 Giugno probabilmente non ricade in nessuna di queste due categorie ma troverà lo stesso spazio nei libri di storia.
La mattina del 24 Giugno, con il 51,9% dei votanti a favore del "LEAVE", il Regno Unito si è svegliato più lontano dall'Europa. Molto più di quelle 21 miglia che separano le bianche scogliere di Dover dall'Europa continentale.
Londra, la città cosmopolita per eccellenza, aveva votato in larga maggioranza per rimanere all'interno dell'Unione Europea (con punte in alcuni quartieri fra il 75 e l'80%), così come la Scozia e l'Irlanda del Nord. Tutto questo non è bastato ad arginare le vittorie del fronte antieuropeista nelle aree rurali del paese ed in Galles (Figura 1).

Il risveglio, però, non è stato di un paese vincitore, ma piuttosto di un paese impaurito dall'incertezza legata al futuro, che ha iniziato a digitare su Google "Cosa è l'Unione Europea?", "Cosa vuol dire uscire dall'UE?", facendo sì che queste fossero le domande più cercate sul motore di ricerca nelle 24 ore successive al voto. Un Paese che si è reso conto di aver fatto votare il popolo su tematiche che (in gran parte) ignorava. Paradossale a tal proposito il caso della Cornovaglia, una delle aree che da anni più ha beneficiato dei fondi UE (oltre 600 milioni di euro all'anno), che tuttavia ha votato per abbandonare l'Europa al 56,5%. Supplicandola, nelle ore del dopo-voto, di mantenere i finanziamenti alla regione.
Ma le problematiche non finiscono qui: anche il Regno Unito stesso, inteso come nazione, esce in qualche modo sconfitto dal referendum e addirittura vede ora messo in discussione il suo futuro. A poche ore dalla comunicazione dell'esito elettorale, infatti, la Scozia (dove i voti pro Europa erano superiori al 62%), si è detta pronta ad ostacolare l'approvazione politica dell'esito del voto e a indire un nuovo referendum per la propria indipendenza dal Regno Unito. E, in caso di successo, l'Irlanda del Nord sarebbe pronta a seguire l'esempio, determinando di fatto la fine del Regno Unito stesso.


Gli elettori non hanno dunque guardato i risvolti economici, ma si sono recati alle urne per un voto di "pancia" e di protesta, dettato dal malcontento verso un'Europa che non riesce a generare entusiasmo, né a trasmettere i suoi valori. Si è anche trattato di un voto basato sulla paura di perdere i privilegi attuali (soprattutto l'assistenza sanitaria) a favore degli immigrati europei. Un voto che ha fatto registrare un'alta affluenza negli over 50, mentre i giovani sono risultati i grandi sconfitti (Figura 2). Secondo numerosi sondaggi, il 75% di quelli fra i 18 ed i 24 anni avrebbe votato per rimanere in Europa. Ma al tempo stesso oltre il 60% di loro non si è recato alle urne. L'Europa probabilmente dovrà riflettere su questo punto. Non è infatti stata capace di creare una cultura europea nei giovani di oggi, gli adulti del domani, in modo da far capire l'importanza di questo voto, in un modo o nell'altro, storico.
Sul piano politico, poi, il Paese nel dopo-voto si è ritrovato nel caos. Cameron si è dimesso e il partito dei conservatori si è spaccato, prima di scegliere il ministro dell’interno Theresa May come nuova guida e nuovo premier a partire dal prossimo 13 luglio; gli stessi laburisti hanno messo in forte discussione il loro leader Corbyn. La piccola Gibilterra, che al 95% ha votato per rimanere, teme addirittura l'annessione alla Spagna...
E' inoltre emerso come, incredibilmente, né il Governo, né i principali partiti avessero in mente un piano vero e proprio per l'attuazione della Brexit in caso di vittoria del "LEAVE". Di fatto lo stesso Boris Johnson, ex sindaco di Londra e sostenitore della campagna antieuropeista, ha iniziato a tendere ponti al fronte del "REMAIN", con dichiarazioni ambigue, che miravano a rallentare la richiesta dell'articolo 50 da parte della Gran Bretagna e a tentare di ricucire in qualche modo i rapporti con un'Europa, mentre Bruxelles premeva invece sull'acceleratore per conoscere prima possibile il futuro del Regno Unito (ed il suo).

Non è andata meglio a Farage: il discusso leader dell'UKIP alla chiusura dei seggi la sera del 23 giugno ha annunciato la sconfitta del referendum, salvo poi ricredersi qualche ora più tardi. La mattina seguente, poco dopo l'annuncio dell'inattesa vittoria, è stato costretto dalle incalzanti domande dei giornalisti a smentire in diretta TV uno dei punti cardine della sua campagna elettorale: i 350 milioni di sterline che il Regno Unito versava ogni settimana all'UE (secondo la BBC la cifra reale è inferiore circa del 50%) non sarebbero andati all'NHS, il servizio socio assistenziale statale, come invece promesso.
In questo turbolento scenario la City, il quartiere finanziario della capitale inglese, ha iniziato un difficile conto dei danni, al momento non ancora del tutto definiti, con decine di migliaia di posti di lavoro pronti ad essere trasferiti verso paesi dell'UE, con numerose aziende che hanno annunciato delocalizzazioni in caso di attuazione dell'articolo 50. Per quanto riguarda la finanza, i primi a beneficiarne dovrebbero essere Dublino, Amsterdam, Lussemburgo e Francoforte, mentre Parigi, Madrid e Milano paiono in seconda fila.
Per le aziende del settore finanziario londinese il timore maggiore è legato ad un'ipotetica sospensione del passport per i servizi finanziari da parte dell'UE. Anche se quest'ipotesi al momento sembra relativamente lontana, i colossi della City si stanno preparando ad un opzione B.
E' in subbuglio anche il settore immobiliare, in particolare quello londinese, con i dati dei primi giorni dopo il referendum che parlano di segnali di indebolimento del mercato e calo dei prezzi.
Sul fronte dei mercati finanziari la reazione all'esito elettorale è stata dirompente, con crolli generalizzati sul comparto azionario, accompagnati da un rally dell'oro, tornato sopra quota 1.300 $ l'oncia.
La débâcle dei listini e della sterlina è stata ampliata dal fatto che la maggioranza degli operatori avesse prezzato come altamente probabile la vittoria dello "STAY". Si è invece verificata l'ipotesi contraria, ventilata come possibile da alcuni sondaggi, mentre gli allibratori erano invece nettamente sbilanciati a favore della vittoria dello "STAY".

Tutto ciò ha generato un nuovo cigno nero sui mercati. Come facilmente prevedibile la sterlina, dopo aver inizialmente guadagnato terreno nella serata del 23 giugno, quando i mercati davano quasi per certa la vittoria del fronte europeista, ha perso pesantamente terreno. Nella sola seduta del 24 giugno la divisa di Sua Maestà è scesa di circa 6 punti percentuali nei confronti dell'euro (Figura 3), 8 con il dollaro (Figura 4) ed oltre 11 con lo yen. In particolare il rapporto fra sterlina e dollaro è sprofondato da 1,50 a 1,32 nell'arco di poche ore, portando il cambio fra le due valute ad aggiornare i minimi degli ultimi 30 anni (Figura 5).
La situazione è simile analizzando la coppia euro/sterlina, anche se in questo caso le oscillazioni sono risultate minori in quanto l'Eurozona pare destinata a subire un impatto decisamente più ampio dalle vicende della Brexit rispetto agli Stati Uniti. Pertanto il recupero dell'euro nei confronti del pound è stato più contenuto rispetto a quello del dollaro (Figura 6). Nel dettaglio, il rapporto fra euro e sterlina è sceso dall'area 0,79 fino a 0,76 nelle sedute antecedenti al 23 Giugno, per poi decollare, risalendo prima verso 0,81 e successivamente in area 0,83.
Pochi giorni dopo il voto, le parole di Mark Carney, Governatore della Bank of England e la sua apertura a nuove misure di stimolo ed a un taglio dei tassi di interesse, hanno generato una nuova ondata di vendite sul pound. Tutto ciò ha portato l'euro ad essere scambiato per 0,84 sterline, circa il 21% in più rispetto ai minimi raggiunti nel luglio 2015 in area 0,694. Questo potrebbe sembrare un paradosso in quanto l'Europa sta vivendo una fase di espansione monetaria, con il Quantitative Easing lanciato da Mario Draghi. E' in realtà spiegabile con il cambio di aspettative degli operatori in merito alla politica monetaria della Bank of England, che era attesa ritoccare i tassi al rialzo in un futuro relativamente breve, mentre invece si troverà ora costretta ad un taglio dei tassi per frenare la recessione tecnica che potrebbe derivare dalla Brexit.

L'incertezza per il futuro politico ed economico del Regno Unito e dell'Unione Europea (Figura 7) si è dunque riversata sui mercati e a farla da padrone è stata la volatilità. E, considerato lo scenario attuale, estremamente incerto ed in continua evoluzione, "volatilità" potrebbe essere una delle parole chiave anche per i prossimi mesi, con la sterlina e le borse pronte a muoversi sulla scia delle news politiche legate alle vicende della Brexit.