Immaginate un mondo in cui le nazioni si affrontano non con eserciti, ma con regolamenti. Una guerra fredda economica, dove i proiettili sono standard di sicurezza per gli avocado, certificazioni sul formaggio che richiedono più tempo della stagionatura dello stesso e quote d’importazione negoziate come se fossero ostaggi. Benvenuti nell’era delle barriere non tariffarie, l’ultimo rifugio dei protezionisti che, in nome della “fairness”, costruiscono muri invisibili ma costosissimi.

È qui che il concetto di “concorrenza equa” diventa un’arma retorica, un modo per nascondere il protezionismo sotto il tappeto della virtù. Paul Krugman, Nobel per l’economia e paladino del commercio strategicamente regolato, direbbe che senza un po’ di regole, i mercati si trasformano in giungle dove i più forti schiacciano i deboli. Ma quando l’Italia insiste che la vera pizza può essere fatta solo con il pomodoro San Marzano, o la Francia dichiara guerra al feta non greco, non stiamo parlando di equità: stiamo parlando di nazionalismo gastronomico mascherato da politica commerciale. Prendiamo i numeri: secondo l’OECD, dal 2009 al 2019, le barriere non tariffarie sono aumentate del 40% a livello globale, con l’UE in testa alla classifica dei regolamenti più creativi. Un rapporto del 2021 della World Trade Organization stima che queste misure aggiungano fino al 20% ai costi delle importazioni, un dato che fa sorridere solo i burocrati e piangere i consumatori.

La crescita delle barriere non tariffarie

Eppure, c’è chi difende queste pratiche come fossero anticorpi contro lo sfruttamento. Ha-Joon Chang, economista di Cambridge, ricorda che i Paesi oggi sviluppati – guarda caso – usarono protezionismo spinto durante la loro ascesa industriale (vedi il Regno Unito con le Corn Laws nell’800). Ora invece, arrampicatisi sulla scala del successo, la calciano via gridando “gioco pulito!” ai Paesi in via di sviluppo. Ironicamente, le stesse nazioni che nel nome della “fairness” impongono standard ambientali draconiani all’Africa – richiedendo certificazioni carbon-free per il caffè – sono quelle che sussidiano la propria agricoltura con 400 miliardi l’anno (dati World Bank), distorcendo i mercati più di un trader su Reddit.
Dall’altra parte della trincea ci sono i libertari fedeli di Milton Friedman, che vedono ogni regola come un crimine contro l’efficienza. Per loro, la concorrenza è una lotta darwiniana: se la Cina vuole inondare il mondo di acciaio sovvenzionato, ben venga. I consumatori pagheranno meno per le automobili, e le aziende inefficienti chiuderanno. Peccato che, come dimostra uno studio del Peterson Institute, i sussidi cinesi all’acciaio abbiano eliminato 1,2 milioni di posti di lavoro globali tra il 2000 e il 2016, con intere comunità negli Stati Uniti ridotte a musei della Rust Belt. Il libero mercato, in teoria, premia l’innovazione; in pratica, spesso premia chi ha il portafoglio più gonfio.

E poi ci sono le follie quotidiane. L’Australia ha bloccato le importazioni di pecorino sardo per anni, citando rischi batteriologici. Risultato? Gli amanti del formaggio a Sydney hanno dovuto accontentarsi di imitazioni locali che, secondo i gourmet, “sanno più di cartone che di pecora”. L’UE, nel frattempo, ha speso milioni per processi legali contro produttori americani di Parmesan, come se il destino dell’umanità dipendesse dal controllo del nome di un formaggio grattugiato. Nel 2019, gli Stati Uniti hanno risposto con dazi sul whisky scozzese e sul Roquefort, in una rissa da bar che ha fatto perdere 10 miliardi di dollari alle esportazioni UE (dati USTR). Tutto questo mentre il clima globale collassa e i leader discutono se lo Champagne può essere prodotto in California. Il paradosso è che queste barriere, spesso giustificate come difesa dei lavoratori o dell’ambiente, finiscono per danneggiare proprio chi dovrebbero proteggere. I dazi sull’acciaio di Trump del 2018 – 25% per “proteggere l’industria nazionale” – hanno salvato 8.700 posti in siderurgia, ma ne hanno sacrificati 175.000 in settori a valle, come l’automotive (studio di Trade Partnership Worldwide).

L'impatto sul commercio delle nuove misure restrittive in miliardi di USD

 

Fonte: WTO

E mentre i politici si riempiono la bocca di “sovranità economica”, le piccole imprese europee affogano nella carta per esportare nel Regno Unito post-Brexit, con costi amministrativi aumentati del 30% (dati Confederation of British Industry). Persino la “carbon border tax” dell’UE, nobile nell’intento di tassare le importazioni inquinanti, rischia di diventare un’arma geoeconomica contro Paesi poveri che inquinano meno pro capite ma non hanno i soldi per certificarsi “verdi”. Alla fine, la verità è che la “fairness” è un concetto elastico come la mozzarella di bufala DOP. I Paesi la tirano quando serve, la comprimono quando conviene. Come scriveva Adam Smith, “non è dalla benevolenza del macellaio che ci aspettiamo la cena, ma dal suo interesse”. Peccato che oggi, invece di macellai, abbiamo burocrati che decidono quali coltelli sono abbastanza affilati per tagliare il salame.
E mentre loro litigano sul diametro dei cetrioli (Regolamento UE n. 1677/88, vero), i cittadini pagano il conto: più caro, con meno scelta e con un retrogusto amaro di ipocrisia.

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