Con l’introduzione dei dazi secondari, gli Stati Uniti ampliano il ricorso alle tariffe come strumento di pressione politica. Oltre ai recenti dazi, già in vigore sui prodotti cinesi e momentaneamente sospesi su quelli europei, la Casa Bianca ha messo nel mirino i partner commerciali di regimi ostili, inaugurando una nuova frontiera della coercizione economica destinata a impattare sui mercati dell’energia a livello mondiale.
Il 24 marzo 2025, con un apposito ordine esecutivo, la Casa Bianca ha disposto infatti l’applicazione di nuovi dazi del 25% nei confronti delle merci importate negli Stati Uniti da qualsiasi Paese che acquisti greggio dal Venezuela. La misura, entrata in vigore il 2 aprile, si inserisce nel quadro delle crescenti restrizioni contro il regime di Nicolas Maduro, ed è stata giustificata come risposta all’invio negli Stati Uniti di membri della gang Tren de Aragua, designata come organizzazione terroristica straniera e alla continua repressione politica, culminata con l’uccisione di un esponente dell’opposizione venezuelana nell'ottobre 2024.
Pochi giorni dopo, in un’intervista rilasciata a bordo dell’Air Force One, il Presidente Trump ha ventilato l’ipotesi di estendere la stessa misura agli acquirenti di idrocarburi russi, in risposta allo stallo nelle trattative per il cessate il fuoco in Ucraina. Per la prima volta, i dazi statunitensi vengono concepiti non più come uno strumento di difesa commerciale, ma come una misura coercitiva di natura extraterritoriale, destinata a interferire con la politica estera dei partner commerciali di Washington.
L’ordine esecutivo definisce il “petrolio venezuelano” come il greggio o i prodotti di estrazione o raffinazione esportati dal Venezuela, indipendentemente dalla nazionalità delle entità coinvolte. Specifica, inoltre, come l'acquisto “indiretto” si estende all’attività degli intermediari o Paesi terzi, purché l’origine del petrolio possa essere ricondotta a Caracas. Come base giuridica, la Casa Bianca ha invocato sia l’International Emergency Economic Powers Act (IEEPA) che il National Emergencies Act (NEA). Le due leggi federali, spesso applicate congiuntamente, risalgono alla fine degli anni ’70 e hanno rappresentato due strumenti estremamente efficaci per l’adozione di misure restrittive. Durante l’Amministrazione di Donald Trump, l’uso dell’IEEPA e del NEA è mutato, con un ampliamento dell’ambito di applicazione e il rafforzamento della dimensione coercitiva, che si è estesa dalle sanzioni tradizionali all’intero settore economico e commerciale. Nel corso degli anni si è giunti così ad uno stato di emergenza semi-permanente, dichiarato dalla Casa Bianca in base alle necessità, che sfugge al controllo del Congresso e rappresenta il presupposto della nota trade weaponization.
I dazi secondari in particolare rappresentano una chimera giuridica, in quanto combinano l’extraterritorialità delle restrizioni finanziarie con il carattere impositivo delle tariffe. Invece di colpire direttamente entità specifiche, come le banche, o individui coinvolti in affari con lo Stato sanzionato, si applicano indistintamente ai beni importati negli Stati Uniti da Paesi terzi. La loro evidente finalità punitiva mira a modificare radicalmente la politica estera e commerciale, sfruttando in modo coercitivo la centralità e le dimensioni del mercato americano. Questo nuovo capitolo della trade weaponization è destinato ad alzare ulteriormente l’asticella dell’uso degli strumenti economici tradizionali per perseguire obiettivi politici ostili, che si riverberano nei rapporti di Washington con i suoi partner commerciali ponendoli davanti a un bivio, tra un allineamento della politica estera con gli USA e l’imposizione di oneri spropositati per l’accesso al mercato americano.
I principali dazi previsti e ora sospesi tranne che nei confronti della Cina

In questo modo, la propensione statunitense ai consumi si trasforma in una leva per imporre scelte tanto drastiche quanto costose, soprattutto per quegli Stati, come l’Italia, la cui economia dipende dalle importazioni di materie prime come gli idrocarburi. Un’ulteriore differenza rispetto alle sanzioni si rinviene nelle autorità competenti, con il trasferimento della gestione dall’OFAC (Office for Foreign Assets Control) al Dipartimento del Commercio. A differenza dei waiver, eccezioni alle sanzioni concesse dal Tesoro americano sotto rigide condizioni, le dogane si limitano a perseguire obiettivi strettamente impositivi, generando entrate fiscali per l’Erario e contribuendo, indirettamente, a finanziare la pressione esercitata dagli apparati di Washington. L’imposizione di oneri di questo tipo si discosta infatti dalle sanzioni economiche, che agiscono limitando l’accesso al sistema finanziario globale, come nel caso della Federazione Russa espulsa dal circuito SWIFT.
L’utilizzo combinato dell’IEEPA e del NEA per imporre dazi secondari contro Paesi terzi potrebbe sollevare alcune perplessità sotto il profilo giuridico. L’International Emergency Economic Powers Act, varato nel 1977, fu concepito per fronteggiare minacce insolite e straordinarie, quali conflitti armati o crisi economiche e attribuisce alla Casa Bianca un ampio ventaglio di strumenti coercitivi, previa dichiarazione dello stato di emergenza nazionale. Nel corso degli anni, l’IEEPA è stato impiegato con efficacia per imporre restrizioni economiche ai cosiddetti “Stati canaglia”, come dimostrano le sanzioni comminate all’Iraq di Saddam Hussein, alla Libia di Gheddafi e, più recentemente, alla Russia di Putin. Gli Stati Uniti hanno potuto così congelare beni e limitare transazioni finanziarie, dopo aver ritenuto che le condotte di tali Stati rappresentassero una minaccia per la sicurezza nazionale.
Nel caso del Venezuela, il nesso tra la dichiarazione di emergenza e l’imposizione di dazi sulle importazioni da Paesi terzi potrebbe essere messo in discussione, ancor di più per l’assenza di un collegamento tra le azioni destabilizzanti del regime di Maduro e i comportamenti dei Paesi partner degli USA colpiti dalle tariffe. Questa bizzarra declinazione dell’extraterritorialità mima solo in parte gli effetti delle sanzioni finanziarie perché investe una materia, come il commercio, estranea all’ambito dell’IEEPA, che è stato utilizzato per imporre export ban e congelare beni ma mai per applicare dazi. Le leggi federali, infatti, pur riconoscendo al Presidente il potere di imporre dazi, stabiliscono precise procedure e condizioni, imponendo che la decisione finale sia adottata solo al termine di un’istruttoria approfondita. Ciò potrebbe portare ad una violazione della “Major Questions Doctrine”, tesi confermata dalla Corte Suprema nel celebre caso West Virginia v. EPA del 2022. Se è vero, secondo la Corte, che le decisioni di vasta importanza economica e politica devono essere esplicitamente autorizzate dal Congresso, l’imposizione generalizzata di dazi secondari potrebbe ampliare i poteri dell’Amministrazione oltre il perimetro dell’IEEPA, giungendo a insidiare i poteri del Congresso in materia doganale e questo potrebbe tradursi in una violazione della separazione dei poteri.
Un’ulteriore criticità riguarda la compatibilità dei dazi secondari con il principio MFN (Most Favored National), pilastro dei liberi scambi già alla base del GATT (General Agreement on Tariffs and Trade, sostituito dal WTO nel 1995). Come noto, gli Stati membri del WTO sono obbligati a garantire reciprocamente lo stesso trattamento commerciale concesso alla “nazione più favorita”. Ciò comporta che una riduzione dei dazi sui beni importati accordata ad un Paese debba essere estesa automaticamente a tutti gli altri. L’imposizione di tariffe secondarie colpirebbe selettivamente i prodotti di diversi esportatori, violando l’obbligo di non discriminazione e instaurando un trattamento differenziato in base a valutazioni politiche, che rendono incompatibile alla radice una simile misura con il WTO. Un’eventuale deroga ai sensi dell’Articolo XXI del GATT, invocata per ragioni di sicurezza nazionale, sarebbe soggetta a obiezioni speculari simili a quelle avanzate per l’IEEPA. Sarebbe infatti difficile giustificare l’uso dei rapporti commerciali, come l’accesso al mercato americano per i Partner degli USA, come leva negoziale per esercitare pressione politica su Stati terzi. Oltre ad essere un’azione spiccatamente unilaterale, i dazi secondari si tradurrebbero in un moltiplicatore di tensioni e spaccature tra i membri del WTO che finirebbe per smarrire del tutto la ratio che l’ha contraddistinto, con la creazione di blocchi di Stati autonomi sul piano regolatorio.
Sul piano economico, i dazi secondari comporterebbero una forte pressione economica sui Paesi importatori di petrolio dal Venezuela o dalla Russia, mettendo a dura prova i rapporti con gli Stati Uniti. Cina e India sono storicamente clienti del greggio di Caracas, ma anche l’Italia ha subito di recente la revoca di un’autorizzazione concessa a Eni, per il pagamento in natura delle forniture di gas del giacimento offshore “Perla” con il greggio della compagnia statale Pdvsa. Inoltre, se i dazi fossero cumulativi, come nel caso della Cina che è già soggetta a pesanti tariffe, il commercio di petrolio a livello globale subirebbe ulteriori strozzature, con effetti a cascata su trader, compagnie di shipping e distributori. Sul piano regolatorio, l’incertezza sull’applicabilità dei dazi anche ai prodotti raffinati o derivanti dal greggio aggraverebbe le difficoltà operative, impedendo agli operatori di concludere i contratti e programmare futuri investimenti. Ciò sarebbe tantopiù grave nel caso della Russia che dispone, nonostante la guerra, di una rilevante capacità di raffinazione accanto a quella estrattiva.
Da un punto di vista economico, l’utilizzo su larga scala dei dazi secondari potrebbe ingenerare effetti devastanti sull’economia statunitense. Il continuo aumento dei costi di importazione di beni intermedi e finali dai Partner commerciali costituirebbe una tassa regressiva pagata dai consumatori meno abbienti e comporterebbe rincari lungo l’intera catena del valore, alimentando ulteriormente l'inflazione, su cui incombono gli effetti della prima ondata di dazi. Tali effetti sarebbero ancora più nefasti nel caso di beni difficilmente sostituibili, caratterizzati da una domanda inelastica, con i costi della coercizione economica che verrebbero scaricati su imprese e consumatori più che sul regime di Nicolas Maduro.
In conclusione, l’introduzione dei dazi secondari da parte degli Stati Uniti si configura come un potente strumento politico, volto a costringere Paesi partner e rivali, senza distinzioni, a sospendere l’acquisto del petrolio dal Venezuela e ad allineare la propria politica estera a quella di Washington, pena la perdita dell’accesso al ricco mercato statunitense. Sebbene questa misura possa isolare ulteriormente il regime di Nicolás Maduro e in futuro quello Vladimir Putin, la sua efficacia dipenderà concretamente dalla risposta dei grandi importatori di idrocarburi, come India e Cina, che adotterebbero sin da subito tecniche di elusione dei divieti. L’applicazione dei dazi secondari comporterebbe non solo rischi per i mercati energetici globali, ma anche conseguenze negative sull’economia americana, prima ancora che su quella dei Paesi importatori. La totale incompatibilità con la cornice del WTO, per quanto fortemente indebolita, e il rischio di una pronuncia sfavorevole delle Corti negli USA comportano ulteriori oneri regolatori. In definitiva, l’approccio aggressivo dell’Amministrazione Trump, pur mirato a esercitare pressioni politiche, potrebbe finire per alimentare nuove fratture tra gli alleati nel mezzo di una guerra commerciale, compromettendo l’equilibrio economico mondiale senza portare benefici tangibili.
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