Nelle ultime settimane, in particolare in occasione della sessione annuale dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, a New York, ha ripreso vigore la spinta al riconoscimento della Palestina come soggetto di diritto internazionale.

Numerosi Stati, infatti, hanno annunciato la decisione di riconoscere lo Stato di Palestina, aggiungendosi alle diverse decine che lo avevano fatto nei decenni precedenti. Il dato più significativo di questa serie di nuovi riconoscimenti sta nel fatto che molti sono Stati appartenenti a quello che, malgrado tutto, si continua a chiamare “Occidente”. Mi limito a citarne alcuni: Francia, Regno Unito, Belgio, Lussemburgo, Malta, Portogallo, Lichtenstein, Canada, Australia, Nuova Zelanda, che si aggiungono a Irlanda, Spagna, Polonia, Ungheria, Romania, Cipro, Slovenia, Repubblica ceca, Slovacchia, Svezia, Finlandia. Germania e Italia sono per ora ferme nel negare il riconoscimento, insieme a Paesi Bassi, Grecia, Austria, Danimarca e gli Stati baltici. Anche la Santa Sede riconosce la Palestina.

In questo stesso periodo, si è riacceso il dibattito sulla portata politica e sul significato giuridico del riconoscimento. Quando si forma una organizzazione di governo che eserciti effettivamente e in maniera indipendente il proprio potere su una comunità stanziata su un territorio, essa diventa soggetto internazionale automaticamente. Non è cioè necessario che questo ente venga riconosciuto dagli altri Stati.
Il riconoscimento è un atto unilaterale, politico, di natura essenzialmente discrezionale. Non produce di per sé conseguenze giuridiche. Appartiene cioè alla sfera politica. Rivela la volontà dello Stato riconoscente di intrattenere rapporti con lo Stato riconosciuto. Essa si traduce essenzialmente nell’instaurazione di relazioni diplomatiche e nella stipulazione di trattati. Tra gli Stati “riconoscenti” e lo Stato “riconosciuto”, cioè, si instaura una più o meno intensa vita di relazione.

La prassi internazionale è molto ricca. Il riconoscimento può essere de jure, cioè consistente nell’adozione di un atto formale, oppure de facto, quando avviene attraverso comportamenti concreti. Ad esempio, uno Stato può decidere di stipulare un trattato, oppure di scambiare rappresentanze diplomatiche. Come è evidente, nessuno Stato conclude accordi, né intrattiene relazioni diplomatiche con enti che non riconosce.
Sotto il profilo della sussistenza o meno della soggettività internazionale, il riconoscimento o non-riconoscimento ha un’importanza relativa. Non incide, cioè, sulla sostanza. Lo Stato esiste anche se non riconosciuto.
Non si ritiene più convincente la teoria del riconoscimento costitutivo, secondo la quale uno Stato derivava la propria soggettività internazionale dall’essere riconosciuto dagli Stati preesistenti. Nell’Europa dell’Ottocento era una sorta di biglietto di ammissione nella comunità internazionale, un’accettazione del nuovo venuto nel club delle potenze, nel “Concerto europeo”.

Tuttavia, ancorché ritenuta in linea di principio superata, questa teoria ha ancora un certo riscontro nella prassi. Gli Stati tendono a giudicare se uno Stato meriti di essere considerato soggetto. Danno, cioè, giudizi di valore, o di sintonia ideologica o politica. L’atto “politico” del riconoscimento viene quindi adottato nei confronti di un’entità “vicina” (ad esempio per appartenenza a gruppi ideologicamente, etnicamente, religiosamente affini).
Alcuni casi dimostrano la ricchezza della prassi. La Cina popolare è stata riconosciuta dagli Stati occidentali solo a partire dal 1971; Cina e USA hanno scambiato missioni diplomatiche col rango di ambasciate soltanto nel 1978. Nessuno può tuttavia negare che la Cina fosse uno Stato (per via dell’innegabile possesso dei requisiti della statualità: governo effettivo e indipendente, popolo, territorio) già dalla presa di potere di Mao nel 1949.
La Repubblica federale tedesca e la DDR esistevano dal 1949. Quella occidentale era diventata già la più grande potenza economica della Comunità europea quando sono iniziati i riconoscimenti nel 1973 (l’anno dell’ammissione di entrambe le Germanie all’ONU).

Ancora oggi una trentina di Stati non riconosce lo Stato di Israele. Eppure non soltanto esiste, ma si tratta di una grande potenza regionale, addirittura appartenente al ristretto club degli Stati dotati di un arsenale nucleare.
Taiwan, poi, rappresenta un caso particolare. Ragioni politiche fanno sì che questa Cina sia tenuta ai margini della comunità internazionale. Tuttavia, alla luce dei caratteri della soggettività internazionale e della statualità non vi sono dubbi che Taiwan sia uno Stato, dotato dei connotati di effettività e di indipendenza, a corollario dei requisiti di un’autorità di governo esercitata su una popolazione stanziata su un territorio chiaramente delimitato (oltre 23 milioni di abitanti).
La prassi conosce anche interessanti casi di riconoscimento prematuro, cioè accordato quando ancora l’ente considerato non manifesta ancora il possesso dei requisiti. Nel 1991-92 la Croazia, con territorio ancora parzialmente occupato da truppe jugoslave e milizie serbe, fu riconosciuta dall’Islanda, ma soprattutto dalla Germania e dalla Santa Sede. Nel 1992 fu anche ammessa alle Nazioni Unite. La piena sovranità fu acquisita dalla Croazia (ora anche Stato membro dell’Unione europea) soltanto nel 1998.
Altro caso interessante è rappresentato dal Kosovo. Questo Paese nel 2008 adottò una “Dichiarazione di indipendenza”, che fu poi oggetto di un parere della Corte internazionale di giustizia. Il riconoscimento del Kosovo mostra in maniera molto evidente il carattere politico di questo atto. Effettività e indipendenza del Kosovo erano e, per certi versi, sono tuttora molto dubbi. In realtà, eravamo allora e siamo ancora in presenza di una sorta di protettorato, non affidato a uno Stato bensì a organizzazioni internazionali. ONU, OSCE, NATO, Unione europea esercitano in Kosovo poteri e funzioni tipiche della statualità. Un pieno riconoscimento e l’ammissione all’ONU trovano il persistente ostacolo della contrarietà (e conseguente minaccia di veto in Consiglio di sicurezza) da parte della Federazione Russa.

Per quanto riguarda la Palestina, la questione fondamentale, che viene sottolineata dai governi che tuttora ne rifiutano il riconoscimento, è relativa al possesso dei citati requisiti. La Palestina presenta il carattere dell’indipendenza? Oppure si tratta solo di una forma di semplice autonomia? L’esercizio di un potere di governo è davvero caratterizzato dall’effettività (esistenza di una vera autorità di governo, confini certi)? Quando si parla di “Palestina”, a chi si guarda? Autorità Nazionale Palestinese, Hamas? Qual è la sua condizione giuridica nella comunità internazionale e, in particolare, alle Nazioni Unite?
Pur con tutti i dubbi su questi interrogativi, l’Assemblea generale dell’ONU, con la risoluzione n. 67/19 del 29 novembre 2012, ha attribuito alla Palestina lo status di “Stato non membro” con funzioni di “osservatore” (come già l’OLP e poi l’ANP). Si tratta di una qualificazione per certi versi curiosa, che ne afferma la statualità ma ne nega la membership nell’organizzazione. Una recente risoluzione del maggio 2024 ha posto le condizioni per un possibile futuro riconoscimento.
C’è, poi, un’eccezione significativa. La Palestina è stata ammessa come Stato membro all’UNESCO, una membership a pieno titolo. L’Italia, con scelta discutibile, ha scelto di astenersi.
Caso a sé è la Corte penale internazionale, istituita nel 1998 con lo Statuto di Roma. In seno a questo organo giurisdizionale internazionale la Palestina è stata ammessa come “Stato parte” dello Statuto, e riconosce la giurisdizione della Corte.

Fonte: World Atlas

Veniamo alla situazione odierna

Nelle ultime settimane abbiamo dunque assistito a un’accelerazione, a forti spinte verso il riconoscimento, con importanti Stati che hanno deciso di accordarlo.
Si tratta di un segnale politico forte, che in questo caso non ha valore meramente simbolico, come afferma chi ha interesse a sminuirne la portata. Israele, poi, lo considera un atto ostile, e il primo ministro Netanyahu si è più volte apertamente pronunciato nel senso di negare una prospettiva concreta alla nascita di uno Stato palestinese.
La tragedia che si consuma a Gaza, con la commissione di crimini di guerra e crimini contro l’umanità – non giustificabili come legittima risposta agli orrori perpetrati da Hamas il 7 ottobre 2023 e dalla volontà di liberare gli ostaggi - e con il crescente sospetto (avvalorato da importanti e autorevoli Report di organismi internazionali) che si stia consumando un genocidio; le terribili violazioni del diritto internazionale umanitario; le sempre più frequenti dichiarazioni di esponenti del governo israeliano di voler procedere con la politica degli insediamenti e delle colonie in vista di una vera e propria annessione della Cisgiordania; le inquietanti dichiarazioni di alcuni ministri israeliani sul futuro di Gaza e dei palestinesi, hanno contribuito a imprimere una spinta.

Per qualificare l’immane tragedia in atto a Gaza, sentiamo quotidianamente ripetere, nelle sedi più autorevoli, che è “inaccettabile”. Tuttavia, il mondo fa poco per fermare i massacri. L’inaccettabile sembra sempre più essere di fatto accettato. Sembra che sia preferibile cimentarsi nella contesa verbale sulla possibile qualificazione di “genocidio”. Nella prospettiva corretta di diritto internazionale, sarà la Corte internazionale di giustizia (cui il 29 dicembre 2023 è stato portato un ricorso del Sudafrica contro Israele) a stabilire se si tratti di genocidio ai sensi della convenzione del 9 dicembre 1948 e della successiva ricca giurisprudenza internazionale. La contesa che ruota sul termine “genocidio” finisce con il mettere in ombra la terribile realtà che si svolge dinanzi agli occhi del mondo intero. Deve essere chiaro che anche ove la Corte non concludesse che a Gaza si stia consumando un genocidio, non vuol dire che quanto continua ad avvenire nella Striscia non sia una gigantesca, orrenda quantità di crimini “secondo il diritto internazionale”.

Vent’anni fa, nel gennaio 2005, la Commissione d’inchiesta dell’ONU che fu chiamata a pronunciarsi sulla tragedia del Darfur (autorevolmente presieduta dal professor Antonio Cassese), si espresse con chiarezza:
“The conclusion that no genocidal policy has been pursued and implemented in Darfur by the Government authorities, directly or through the militias under their control, should not be taken in any way as detracting from the gravity of the crimes perpetrated in that region. International offences such as the crimes against humanity and war crimes that have been committed in Darfur may be no less serious and heinous than genocide”.
(“La conclusione che nessuna politica genocidiaria sia stata realizzata dalle autorità di governo in Darfur, direttamente o attraverso le milizie sotto il loro controllo, non dovrebbe essere in alcun modo presa per sminuire la gravità dei crimini perpetrati in quella regione. Reati internazionali come i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra che sono stati commessi in Darfur possono essere non meno gravi e odiosi del genocidio”).

Non si deve dimenticare che il primo ministro israeliano e un ministro del suo governo sono destinatari di un mandato di arresto spiccato dalla Corte penale internazionale proprio per l’accusa di aver commesso crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Diversi governi hanno imboccato la strada del riconoscimento formale per spingere la comunità internazionale a uscire dalla palude in cui sta chi dichiara di aderire all’impegno “due popoli, due Stati” ma poi non si schioda da posizioni che impediscono allo Stato di Palestina di nascere compiutamente.
Il riconoscimento vuole dare il segnale ai governi: coraggio, la Palestina deve essere un interlocutore e un protagonista delle iniziative volte a consentire che si realizzi appieno il suo diritto all’autodeterminazione. Lo status di osservatore non basta più. L’osservatore non è soggetto a pieno titolo; deve stare ad attendere che altri decidano per lui.

I riconoscimenti individuali di ormai oltre 150 Stati (su 193 membri dell’ONU) sono, dunque, un passo importante, e indicano la volontà di alzare il profilo della Palestina nella comunità internazionale, e permetterle di arrivare al da troppo tempo atteso della compiuta realizzazione del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese. L’ammissione a pieno titolo all’ONU incontra un ostacolo formidabile. L’articolo 4 della Carta, adottata 80 anni fa, stabilisce che l’ammissione di un nuovo Stato membro avviene per “decisione dell’Assemblea generale su proposta del Consiglio di sicurezza”. Le decisioni del Consiglio sono adottate a maggioranza di nove membri su quindici, e tra i nove deve esserci il “voto concorrente” di tutti i cinque membri permanenti. Di questi, quattro riconoscono la Palestina, mentre gli Stati Uniti sono fermamente contrari, e porrebbero il veto.

Comunque, il segnale forte è nel senso di imboccare la strada di uscire dall’ambiguità. La Palestina nel mondo delle relazioni diplomatiche esiste già, da molto tempo. L’Autorità Nazionale Palestinese – pur nei limiti che Israele e Hamas pongono al suo potere di governo – esiste e viene considerata un interlocutore dalla comunità internazionale. Anche l’Italia, che pure formalmente non riconosce lo Stato di Palestina, sembra prenderne realisticamente atto. Per lungo tempo Nemer Hammad ha rappresentato a Roma l’OLP di Yasser Arafat presso il governo italiano. Nel volume del Cerimoniale Diplomatico della Repubblica, pubblicato dal MAECI il 30 aprile 2025, nella sezione “Ambasciate estere in Italia”, compare (pag. 156, in ordine alfabetico degli Stati, dopo il Pakistan e prima di Panama) la Missione della Palestina, con la Capo Missione indicata come “Sua Eccellenza l’Ambasciatore straordinario e plenipotenziario” e la missione ha anche un Primo segretario e due Terzi segretari.

Il 27 luglio scorso una settantina di ambasciatori italiani a riposo ha scritto una lettera alla Presidente del Consiglio, nella quale affermano che “ci sono momenti nella storia in cui non sono più possibili ambiguità né collocazioni intermedie. Questo momento è giunto per Gaza”. Perciò, chiedono al governo “l’iniziativa da assumere con urgenza, di altissimo significato politico e tutt’altro che meramente simbolica dell’immediato riconoscimento nazionale dello Stato di Palestina (…). Questa decisione confermerebbe che da parte italiana la prospettiva ‘due popoli, due Stati’ non è solo uno slogan privo di senso compiuto e di qualunque credibilità, ma che si tratta di un percorso negoziale da riprendere immediatamente”.
Un’analoga iniziativa è stata assunta da 58 ex ambasciatori dell’Unione europea, con una lettera indirizzata ai vertici dell’UE e ai capi di governo e ministri degli esteri degli Stati membri.

La storia pone agli Stati – che si definiscono sovrani e che sono chiamati a gestire insieme, secondo il metodo del multilateralismo istituzionalizzato, la vita di relazione internazionale – alcune sfide cruciali. Sui governi incombe la responsabilità di raccogliere le sfide e di dare risposte all’altezza di esse.

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