I numerosi conflitti in corso, dall’Ucraina alla Striscia di Gaza, senza dimenticare Sudan, Yemen e altri, hanno certamente inflitto un colpo al diritto internazionale, che è stato violato nella sua essenza, ossia nell’obbligo per gli Stati di non usare la forza nelle relazioni internazionali. Nessun dubbio, infatti, che il sogno di un mondo senza guerra inseguito dopo la Seconda guerra mondiale anche con l’istituzione delle Nazioni Unite è tramontato e ha retto solo a intervalli. Ma non è solo questo che ha minato l’ordinamento faticosamente costruito, incentrato sul divieto dell’uso della forza salvo nei casi di legittima difesa individuale e collettiva, perché ciò che è accaduto e che sta accadendo è che gli strumenti stessi alla base dell’ordinamento internazionale ossia la negoziazione, la giustizia e la via diplomatica e pacifica come mezzo di soluzione delle controversie, hanno mostrato di non funzionare. Senza dimenticare il crescente disprezzo per le regole internazionali non solo dimostrato, ma anche rivendicato da molti Stati.
Le responsabilità sono sicuramente da individuare nei leader alla guida di Paesi che, in questi anni, hanno ribadito di non voler avere limiti alla propria sovranità e alle proprie scelte, dal Presidente russo Vladimir Putin con l’aggressione all’Ucraina del 24 febbraio 2022, ancora in corso malgrado qualche timido segnale di pace, al Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu che, dopo gli efferati attacchi di Hamas del 7 ottobre 2024, che hanno portato al massacro di numerosi civili israeliani, ha reagito con bombardamenti su larga scala non esitando a colpire obiettivi civili e persone vulnerabili in violazione delle regole di diritto internazionale umanitario.
Ma la crisi di credibilità del diritto internazionale è anche dovuta all’assenza di leader in grado di svolgere un negoziato in modo adeguato, con obiettivo principale la prevenzione e la cessazione delle guerre e il ripristino della pace. A ciò si aggiunga la sostanziale paralisi delle organizzazioni internazionali, con le Nazioni Unite prima bloccate all’interno del Consiglio di sicurezza dal veto russo e statunitense rispetto alle due principali crisi in corso e poi rese superflue dall’avvento del Presidente statunitense Donald Trump, con la sua politica affaristica/isolazionista. Anche l’Unione europea ha dimostrato una sostanziale incapacità di negoziazione e una perdita di credibilità a causa delle contraddittorie risposte fornite nei casi di violazioni perché, se nei confronti della Russia sono state disposte sanzioni e misure restrittive rivolte a individui e persone giuridiche, lo stesso non è accaduto nel caso del conflitto nella Striscia di Gaza dove è mancata ogni forma di pressione nei confronti del Premier Netanyahu a cui, anzi, alcuni Paesi europei hanno continuato a fornire supporto militare e politico.
In questo contesto, l’unica reazione che almeno prova a tracciare un percorso nel segno del rispetto delle regole è arrivata dalla Corte penale internazionale (che ha sede all’Aja, in Olanda), con la Pre-Trial Chamber della Corte che ha emesso, tra gli altri, due mandati di arresto nei confronti di capi di Stato e di Governo in carica ossia Vladimir Putin e Benjamin Netanyahu .
Ma anche in questo caso i valori fondanti dell’ordinamento internazionale sembrano sotto scacco, perché l’esercizio della giustizia penale internazionale, che è alla base dell’ordine internazionale, ha subito colpi da parte degli Stati che ne minano l’effettività.
Ed è emblematico della crisi della comunità internazionale proprio il caso del mandato di arresto nei confronti di Netanyahu. Se, infatti, nei confronti di Vladimir Putin l’intera comunità aveva salutato con favore l’emissione del mandato di arresto (con la contrarietà di pochi Stati come la Mongolia che non hanno proceduto all’esecuzione), nel caso di Netanyahu la reazione è stata per lo più di contrasto ( fino all’affronto del Premier Viktor Orbán che lo ha accolto in Ungheria con tutti gli onori) e di critica alla Corte. Che, in realtà, ha semplicemente dato seguito ai motivi per i quali è stata istituita con l’accordo del 17 luglio 1998, entrato in vigore il 1° luglio 2002, in seguito alla Conferenza tenutasi a Roma. Il Trattato istitutivo riprende il percorso avviato dai Tribunali di Norimberga e di Tokio, nonché successivamente dal Tribunale penale internazionale per la ex Yugoslavia e per il Ruanda: ossia punire gli individui autori di crimini efferati che offendono la comunità internazionale nel suo insieme e l'umanità stessa. I crimini di guerra, contro l’umanità, il genocidio, l’aggressione trascendono i confini geografici e politici, non sono affari interni di una nazione, ma riguardano l’intera umanità e il ruolo della Corte penale internazionale è proprio quello di colpire, con i limiti di ratione materiae e personae fissati dallo Statuto, gli autori di questi crimini non solo in chiave punitiva, ma anche preventiva considerato il ruolo deterrente che la giustizia penale internazionale può esercitare.
Il sistema in cui opera la Corte penale internazionale è fondato sul pieno rispetto dei diritti dell’uomo e sulle garanzie processuali per l’indagato e poi imputato, con l’aggiunta che, anche per consentire una giustizia effettiva e la piena partecipazione dell’accusato alla propria difesa, il processo può svolgersi solo in sua presenza e non in contumacia. È così fondamentale la collaborazione degli Stati che sono tenuti a cooperare con la Corte e, quindi, anche ad eseguire i mandati di arresto. Pertanto, le reazioni degli Stati parte allo Statuto, nel caso del mandato di arresto nei confronti di Netanyahu, sono proprio un test sull’effettivo rispetto degli obblighi internazionali.
Prima di analizzare quali sono state le reazioni degli Stati e il possibile futuro scenario rispetto all’attività della Corte, è utile ricordare che la richiesta di emissione di un mandato di arresto per Benjamin Netanyahu era arrivata, il 20 maggio 2024, dal Procuratore della Corte penale internazionale Karim Khan che, oltre a chiedere l’arresto di alcuni leader di Hamas (in particolare del capo militare Deif), aveva presentato alla Pre-Trial Chamber i documenti per emettere un provvedimento restrittivo della libertà personale nei confronti del Primo ministro israeliano e dell’ex Ministro della difesa Yoav Gallant .
Di fronte a una vicenda che più di altre polarizza le parti in campo, il Procuratore ha proceduto con molta attenzione e rigore avvalendosi di esperti di diritto internazionale penale per le indagini, ai quali è stata richiesta una valutazione delle prove raccolte dalla Procura prima che quest’ultima procedesse ad avanzare la richiesta di arresto alla Camera preliminare.
La Pre-Trial Chamber, composta da tre giudici di diverse nazionalità, ha accolto la richiesta del Procuratore ed emesso il mandato di arresto, con decisione del 21 novembre 2024. In particolare, la Camera ha rilevato che vi sono “ragionevoli motivi” per ritenere che gli indagati (Netanyahu e Gallant) abbiano commesso crimini quali affamare la popolazione civile (starvation), atti di persecuzione nei confronti della popolazione civile di Gaza e compiuto uccisioni nei confronti di civili.
Dal punto di vista generale, ossia di un inquadramento dell’emissione del mandato di arresto nel contesto degli obblighi internazionali, è da sottolineare che molti Stati hanno reagito contestando la competenza della Corte penale non solo accusata di parzialità ma anche di incompetenza. Eppure, la Pre-Trial Chamber ha agito nel pieno rispetto delle proprie competenze perché, se è vero che Israele non ha ratificato lo Statuto della Corte penale internazionale, la competenza della Corte è fondata sull’adesione della Palestina, avvenuta nel 2015. La Corte, così, può indagare su crimini commessi da cittadini palestinesi anche in Stati non parti come Israele (di qui la competenza per la strage commessa da Hamas sul territorio israeliano il 7 ottobre) e su crimini commessi sul territorio palestinese anche da cittadini di Stati non vincolati dallo Statuto (quindi da cittadini israeliani). Sono le norme dello Statuto, ratificato da 125 Stati a prevederlo: l’articolo 12, che si occupa delle condizioni per l’esercizio della giurisdizione, afferma la competenza della Corte sulla base del principio di territorialità in base al quale i crimini commessi sul territorio di uno Stato parte al trattato sono di competenza della Corte e del principio di personalità, ossia nei casi di crimini commessi da un cittadino di uno Stato parte sul territorio di Stati terzi.
Così, la Pre-Trial Chamber ha respinto, il 21 novembre 2024, l’eccezione di Israele che sosteneva la mancanza di giurisdizione della Corte in relazione al fatto che Tel Aviv non ha mai ratificato lo Statuto.
Chiarita la propria giurisdizione, la conseguenza sul piano giuridico è che, in base agli obblighi degli Stati parte alla Corte penale internazionale secondo l’art. 87, le autorità nazionali devono cooperare con la Corte ed eseguire gli ordini di arresto, qualora il Premier israeliano Netanyahu si rechi in un Paese che ha ratificato lo Statuto della Corte. In una simile situazione il Premier dovrebbe essere arrestato perché non godrebbe di alcuna immunità che, invece, resterebbe per i Paesi non parti allo Statuto come gli Stati Uniti e la Russia. La Palestina, dal canto suo, in quanto parte allo Statuto, sarebbe tenuta ad arrestare i leader di Hamas.
Ma anche qui le reazioni sono state deludenti perché diversi leader anche dell’Unione europea hanno dichiarato (e nel caso di Orbán messo in pratica) che non avrebbero eseguito gli arresti perché il Premier israeliano godrebbe dell’immunità dalla giurisdizione.
Così non è perché l’immunità dei capi di Stato e di Governo è opponibile solo se la richiesta di arresto arrivi dall’autorità giurisdizionale di uno Stato e non dalla Corte penale internazionale. Pertanto, gli Stati parte non possono in alcun modo non adempiere agli obblighi della Corte richiamando l’immunità degli accusati. Questo è stato confermato dalla Pre-Trial Chamber che, con decisione del 24 ottobre 2024, a fronte del mancato arresto di Putin da parte della Mongolia, Stato parte allo Statuto, ha di fatto condannato il Paese e, ai sensi dell’articolo 87, par. 7, poiché non è stata ottemperata la richiesta della Corte, impedendo così alla Corte di esercitare le proprie funzioni, ha deferito il caso all’Assemblea degli Stati parte.
Altri mondi, perché adesso l’Italia è alle prese con un procedimento dinanzi alla Pre-Trial Chamber per non aver eseguito il mandato di arresto nei confronti del cittadino libico Al-Masri , ed è obbligata a presentare una memoria difensiva entro il 22 aprile
Un ulteriore segnale della crescente insofferenza degli Stati verso gli obblighi internazionali, finanche laddove la competenza della Corte penale internazionale è fondata sul deferimento della situazione libica da parte del Consiglio di sicurezza.
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