Non paragoniamo il 2022, anno di perdite per gli investitori in Borsa, né al 1929, né al 2000. Per carità, i prezzi sono scesi e i portafogli hanno sofferto, ma la crisi del 2022 era prevedibile e si è svolta ordinatamente. La crisi del 1929 fu innescata da un aumento eccezionale del credito nel periodo post bellico e nell’accumulo di una capacità produttiva eccedentaria rispetto ai redditi dei consumatori. Quando i nodi vennero al pettine, furono le azioni della borghesia ad autodistruggersi nelle vendite senza compratori e ci vollero più di venti anni perché i prezzi delle azioni tornassero a rivedere, in valori nominali, i livelli precedenti.

La Borsa del 2000 crollò per l’esuberanza irrazionale con cui risparmiatori e speculatori salutarono la rivoluzione delle dot.com. Una classica bolla e una storia di irrazionale avidità. Nell’ansia di individuare chi avrebbe trionfato su Internet, gli investitori si accaparrarono titoli più e meno sostanziosi, quasi tutti privi di utili attesi, facendo salire gli indici fino al classico momento in cui una bolla salta. Salta quando tutti hanno comprato e nessuno che voglia vendere per realizzare trova qualcuno che non abbia già acquistato. Senza acquirenti, senza liquidità, la bolla scoppiò e quella volta ci vollero 13 anni per rivedere le quotazioni precedenti.

Le borse hanno fibrillato notevolmente nell’anno della pandemia (-38% a seguito del primo lockdown), ma lo SP500 il 3 agosto del 2020 era tornato esattamente dover era prima del crollo.

L’indice storico S&P500 (150 anni) in scala logaritmica. Fonte: multpl.com

Che cosa era capitato? A differenza delle altre grandi crisi citate, dopo la pandemia tutte le banche centrali erano intervenute. E non poco. Da un lato avevano azzerato e infine ridotto sotto a zero il tasso di interesse a breve termine, con il che rendendo illimitata e senza costi l’offerta potenziale di credito e liquidità. Dall’altra parte avevano deciso di acquistare titoli obbligazionari (governativi e non) per farne salire il prezzo e schiacciare il rendimento. Il rendimento dei titoli governativi è però una approssimazione del costo marginale dell’indebitamento pubblico, il che significa che la tradizionale separazione tra banche centrali e bilanci pubblici è stata temporaneamente archiviata.

In conseguenza di questo, i governi hanno sostenuto la spesa e i trasferimenti pubblici necessari ad evitare una crisi reale di grandi proporzioni. E gli investitori si sono trovati senza più obbligazioni appetibili e a scontare con tassi prossimi allo zero i dividendi delle azioni. Parte del risparmio negli anni dell’intervento delle banche centrali è stato parcheggiato nella liquidità, ma molti si sono fidati delle azioni e della promessa dei dividendi, così che il denaro è affluito in Borsa, pur in un periodo di crisi, quando normalmente la liquidità in Borsa si contrae. Invece questa volta si è allargata.

Ma non poteva durare. Prima la Fed, poi la Bce e la Boe hanno dovuto chiudere i loro programmi di intervento diretto quando l’inflazione è tornata a farsi viva, per la verità già prima che iniziasse la guerra in Ucraina e si aprisse la crisi energetica in Europa. I tassi a zero non sono più coerenti con la presenza di inflazione e da lì è iniziata una corsa al rialzo sia dei tassi a breve, guidata dalla fissazione degli stessi delle Banche centrali, sia il rialzo dei rendimenti a lungo termine, perché la Bce per intanto non acquista più né Bund né Btp, mentre la Fed vende ai privati il proprio sostanzioso magazzino di titoli pubblici, che richiedono quindi rendimenti più alti per essere assorbiti.

I titoli azionari sono quindi influenzati in tre modi dal ritorno delle condizioni normali o addirittura restrittive della politica monetaria. Subiscono la concorrenza di obbligazioni governative decennali che rendono ormai il 3,5 per cento oltre oceano, il 2 per cento in Germania e il 3,7% in Italia. In secondo luogo, il rialzo dei tassi di interesse riduce l’utile netto delle imprese, perché il costo del denaro non è più a zero, infine – e questo sta inducendo la volatilità nella prima parte del 2023 – il rischio che la politica monetaria sia costretta ad estendersi fino a determinare una recessione dell’economia reale non può essere accantonato. Con il costo del denaro più alto, i bilanci pubblici devono essere necessariamente più austeri e con il costo del denaro più alto gli acquisti che dipendono dai tassi di interessi, come quelli delle case e dei beni durevoli, inevitabilmente sono impattati.

L’economia in recessione, non molto probabile in Italia, più probabile in Germania, molto esposta all’est europeo, più probabile ancora negli Usa, determina una possibile flessione del Pil e quindi degli utili aziendali, che sono una componente, del tutto volatile del Pil. Utili a rischio scontati a tassi più alti rendono razionali quotazioni inferiori, di qui la pressione al ribasso sui mercati. Il gioco è fatto. Si risolverà quando si risolverà l’incertezza. Ossia quando le banche centrali avranno terminato i rialzi dei tassi e l’inflazione sarà tornata sotto controllo e quando i dubbi sulla possibile recessione saranno risolti, sperabilmente in senso positivo. Prima di allora la volatilità sarà verosimilmente la regina del mercato.

L'altro giorno, per esempio, la Borsa ha dovuto digerire la notizia di 10mila licenziamenti globali della Microsoft, quasi il 5% della forza lavoro. E in un mondo che prometteva latte e miele per tutti coloro che lavoravano nell’informatica è stata una doccia fredda. Anzi, gelata.