A cosa dovrebbe servire il salario minimo? A sollevare dalla povertà i circa tre milioni di lavoratori che, secondo Eurostat, percepiscono ora un reddito che nella povertà li mantiene. Costituiscono l’11,5% del totale in Italia, l’8,5% nella media Ue e il 7,12% nella media dei paesi Ue che non hanno un salario minimo.
Chi sono? Come dimostrato in un articolo precedente non sono che in minima parte occupati in aziende del settore privato con almeno 10 dipendenti. Come un successivo articolo conferma, i lavoratori poveri vanno cercati fra (I) i “finti autonomi”, (II) i dipendenti di micro-aziende e, (III) fra chi vive del nero e dichiara redditi fasulli. L’introduzione di un salario minimo nazionale dovrebbe servire a supportare il reddito dei primi due gruppi e a ridurre il numero di persone che appartengono al terzo.
Poiché sul tema sono stati scritti volumi, elenchiamo anzitutto le osservazioni che più condividiamo per passare poi a due aspetti alquanto trascurati: il ruolo dell’immigrazione e il processo definito della "distruzione creatrice".

Quattro punti di partenza

a) Una quota non piccola di povertà deriva dalla uniformità salariale sul territorio nazionale a fronte di costi della vita che variano anche del 100%. Permettere la contrattazione salariale locale, sia nel pubblico che nel privato, potrebbe contribuire sia a una riduzione nel numero di lavoratori poveri che a un mercato del lavoro più efficiente e giusto.
b) Per lo stesso motivo, un salario minimo uniforme per l’intero paese accentuerebbe tali distorsioni.
c) La cifra proposta (9 euro) collocherebbe il salario minimo italiano fra i tre o quattro relativamente più alti del mondo, con ovvie conseguenze sulla domanda di lavoro poco qualificato.
d) Poiché il minimo riguarderebbe circa un milione di micro imprese, l’evasione salarialesi cumulerebbe a quella fiscale.
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I dati riportati all’inizio suggeriscono esista una specificità italiana ma Istat, Cnel o altro centro di ricerca non ci offrono dati che permettano di decomporre il totale dei lavoratori poveri nei tre gruppi elencati sopra. Nella misura in cui essi appartengono al primo (finti autonomi) o al terzo (evasori) gruppo, il salario minimo non avrebbe alcun effetto sulla povertà. Consapevoli di questo concentriamoci sui lavoratori dipendenti di micro imprese marginali o finte cooperative dei servizi.
Molte di queste persone percepiscono salari molto bassi perché sono facilmente sostituibili e hanno un basso costo-opportunità del loro tempo, ovvero sanno fare pochissime cose e non hanno copertura famigliare o sociale che gli permetta di rifiutare l’offerta di salari miserabili per cercare condizioni di lavoro migliori. Se la scarsa produttività fosse l’elemento dominante (cosa che non sappiamo per mancanza di buoni dati) il salario minimo avrebbe solo l’effetto di marginalizzare ulteriormente tali lavoratori facendoli sostituire da macchine o software.

La catena della sostituibilità

Consideriamo ora il fattore del basso costo-opportunità il cui ruolo diventa chiaro se riflettiamo sulla catena della sostituibilità che corre lungo tutto il mercato del lavoro, dal basso all’alto e viceversa. Chi troviamo al fondo del fondo del mercato del lavoro italiano? Gli immigrati illegali che lavorano a mani nude nei campi del Mezzogiorno. Quando vengono pagati? Circa 2-3 euro all'ora, forse meno. Dato questo, offrire 4 o 5 euro all'ora per fare delle consegne in citta diventa un salario accettabile per chi ha, come unica alternativa, il lavoro nei campi.
Il costo-opportunità funziona sequenzialmente, a partire dall’ultimo gradino via via sino alla cima del mercato del lavoro. Se ho persone disposte a lavorare nella cooperativa di pulizie per 4 o 5 euro all'ora, tu, che forse hai completato un ciclo di studi ma hai la professionalità del garzone di bottega, devi accontentarti di fare il cameriere o il garzone di bottega per 6 o 7 euro all'ora ... E così via.

A noi sembra palese che un mercato del lavoro siffatto abbia due problemi di fondo che il salario minimo non può curare: un grande numero di immigrati, illegali o privi di cittadinanza, con bassissimo potere contrattuale ed un altrettanto grande o maggior numero di lavoratori italiani privi di capitale umano produttivo. Forse sono quelle le criticità che bisognerebbe affrontare.

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Un'idea molto neoliberista

Veniamo all’idea della “distruzione creatrice” secondo la quale un salario minimo relativamente alto porterebbe alla distruzione/chiusura di un gran numero di imprese marginali ma questo avrebbe l’effetto benefico di far entrare in quei mercati altre imprese di maggiori dimensioni, più produttive e quindi capaci di pagare un salario maggiore. Forse sì, ma forse anche no. L’idea, molto (neo?)liberista, sembra scordarsi due ingredienti: (a) affinché si crei spazio di mercato per le nuove imprese bisogna che le vecchie escano effettivamente dal mercato e rimanga la domanda insoddisfatta; (b) le tecnologie che le nuove imprese intendono adottare devono essere compatibili con la qualità della forza lavoro lasciata libera dalle imprese inefficienti che sono uscite dal mercato.

L'esempio dell'ospitalità

Le osservazioni precedenti e un minimo di conoscenza della sociologia economica e territoriale dell’Italia del lavoro povero suggeriscono sia almeno ragionevole dubitare che queste condizioni si realizzino. Pensiamo al settore che ora viene chiamato dell'ospitalità: ci aspettiamo davvero l’uscita dal mercato di decine di migliaia di piccoli bar, ristoranti, locande e alberghetti, sostituiti da Starbucks, McDonald's e Hilton? Crediamo davvero che l’economia della micro-impresa “grigia” - la quale domina l’intero Mezzogiorno - verrebbe sostituita da grandi e tecnologicamente avanzate imprese nell’agricoltura, le costruzioni e la distribuzione?
Ammesso, ma non concesso, che le decine di migliaia di micro-proprietari miracolosamente evaporassero senza colpo ferire, dove si trova, ora, la forza lavoro qualificata di cui necessitano le imprese avanzate che tale distruzione dovrebbe creare?