Nessuno ad oggi si immagina quando le politiche monetarie ultra espansive termineranno, e dunque nessuno prende una decisione netta a sfavore delle obbligazioni. Allo stesso tempo, quelli che vedono salire le azioni per effetto degli (ancora modesti) spostamenti dei portafogli obbligazionari, non le vendono, anche se osservano la formazione di una “bolla”. Contano che il movimento continui. Si hanno perciò dei mercati obbligazionari stabili e mercati azionari in ascesa. L'andamento dei mercati finisce per dipendere dl comportamento di osservazione reciproca degli operatori. Non sono i fondamentali a pesare ma i giudizi che si formano sui comportamenti altrui.
Altrimenti detto, non è l'anomalia dei rendimenti statunitensi a preoccupare – essi sono pari alla metà della media storica, e neppure la divaricazione fra prezzi e fondamentali sempre negli Stati Uniti – la borsa cresce più di quanto cresca l'economia, e la differenza fra i due tassi di crescita in passato ha sempre portato ad una caduta dei corsi (1). Preoccupa la fine della politica monetaria ultra espansiva, di cui nessuno è però in grado di anticipare la modalità e i tempi – nemmeno la Banca Centrale. Nessuno perciò prende decisioni ultimative e perciò non si ha un mutamento vero di direzione. Proprio come nella metafora del concorso di bellezza (il “beauty contest)” di J.M. Keynes: non si chiede di votare il volto che si pensa sia il più bello, ma quello che si pensa che sia il più bello per la maggioranza dei votanti.
1- Il debito che scaccia il debito
Le politiche economiche ultra espansive producono nuovo debito pubblico e sono volte a rilanciare l'economia per uscire dalla trappola del debito privato cumulato - come è il caso del Giappone, degli Stati Uniti e della Gran Bretagna. Insomma, “il debito caccia il debito” è un ragionamento macro-economico, che si può più o meno condividere, ma non è un paradosso (2). Il costo politico dell'austerità è elevato, come si vede dalla battaglia politica in corso. Sorge perciò la tentazione di maritare una politica fiscale molto espansiva con una politica monetaria molto accomodante. Quasi tutti i Paesi hanno spese crescenti e entrate meno “vispe”. Il deficit che ne scaturisce crea del debito che però è comprato (negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in Giappone) dalla Banca Centrale. La Banca Centrale può anche rendere al Tesoro le cedole (come accade in modi diversi negli Stati Uniti e in Gran Bretagna) e dunque si ha un debito crescente con un costo compresso.
Il debito pubblico crescente, se spinge la crescita, aiuta a uscire dalla trappola del debito pubblico e privato, mentre non ha un costo politico immediatamente visibile, e perciò non si deve riformare a fondo e subito la struttura delle spese e delle entrate dello stato. Si compra tempo, e, poco modificando, si ha un consenso “facile”. L'austerità dell'Euro-area, invece, non compra tempo, e, cercando di modificare la struttura delle uscite e delle entrate, non ha un un consenso “facile”. Il punto di vista dell'euro area è sintetizzato in nota, dove si riprende il discorso del “debito che caccia il debito” (3).
Le politiche economiche ultra espansive producono una “curva dei rendimenti” (la disposizione per scadenza dei tassi e dei rendimenti) compressa, che, a meno di durare per decenni, è molto pericolosa. Che cosa accadrebbe, infatti, se si alzasse? Il costo del debito pubblico – il cui volume è intanto cresciuto moltissimo - emergerebbe, e il bilancio pubblico si troverebbe a dover pagare degli oneri da interesse molto alti (4).
2- L'Italia
La prima tabella mostra le previsioni del Governo sul rientro dal deficit pubblico e sulla stabilizzazione del debito pubblico. Si ha una crescita reale non modesta unita a un'inflazione (misurata dal deflatore del PIL) modesta. La crescita nominale (= crescita reale più quella dei prezzi) del PIL sale - dal 2014 al 2017 - dal 3% circa al 4% circa. Grazie alla crescita che genera delle maggiori entrate a parità di aliquote e grazie alle manovre che mettono le uscite sotto controllo, si ha un avanzo di bilancio prima del pagamento degli interessi – il surplus primario – nell'ordine del 5%. Poiché l'onere da interessi è intorno al 5% del PIL, nel 2017 si ha il pareggio del bilancio. In altre parole, le entrate dello stato sono maggiori delle sue spese e la differenza paga gli interessi sul debito. Svanisce così il deficit, e non si emette più debito pubblico. Il debito pubblico resta perciò costante – il numeratore non varia -, mentre il PIL cresce – il denominatore ha una variazione positiva. Si ha perciò una discesa del rapporto fra il Debito e il PIL, che arriva al 120% nel 2007. (Nota tecnica: il costo del debito pubblico come tale è del 4,5% circa, ma poiché il debito è intorno al 130% circa del PIL, ecco che esso, espresso in percentuale del PIL, è maggiore, ossia 4,5%X1,3).
| 2013 | 2014 | 2015 | 2016 | 2017 |
Crescita | -1,70% | 1,00% | 1,70% | 1,80% | 1,90% |
Deflatore | 1,20% | 1,90% | 1,70% | 1,70% | 1,70% |
Costo debito | 5,40% | 5,40% | 5,30% | 5,30% | 5,20% |
Surplus | 2,40% | 2,90% | 3,70% | 4,50% | 5,10% |
Debito/PIL | 132,89% | 132,80% | 129,00% | 125,00% | 120,00% |
Tutto bene? Si, ma la crescita potrebbe essere inferiore e il costo del debito maggiore. In questo caso, il surplus primario sarebbe inferiore a quello della tabella, e dunque il deficit sarebbe maggiore e, alla fine, il rapporto Debito/PIL maggiore. In questo caso, la vulnerabilità del nostro debito sarebbe maggiore e i rendimenti richiesti potrebbero essere maggiori. La vulnerabilità dipende anche dal debito che va in scadenza, che non è proprio poco, anche se vicino alla media dei Paesi avanzati, come mostra la seconda tabella. La vulnerabilità finanziaria ha una componente interna – la crescita che potrebbe essere inferiore, e una esterna – il rialzo dei rendimenti legato alla fine delle politiche monetarie ultra espansive.
Debito in scadenza | 2013 | 2014 | 2015 |
Giappone | 58,40% | 58,10% | 54,20% |
Italia | 28,40% | 28,10% | 28,30% |
Stati Uniti | 23,90% | 24,30% | 23,00% |
Germania | 8,30% | 8,10% | 5,50% |
Svizzera | 3,30% | 3,00% | 2,30% |
Paesi avanzati | 22,30% | 22,50% | 21,40% |
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La spesa pubblica in deficit funziona sotto certe condizioni. Per sapere quali, chiediamo lumi a due economisti keynesiani (De Long e Summers, Fiscal Policy in a Depressed Economy, marzo 2012, pagina 9). Secondo loro, l'espansione dell'economia (purché sia depressa, ossia con una sotto occupazione degli impianti e della manodopera) attraverso un maggior deficit pubblico senza per questo avere un aumento del debito pubblico (in percentuale del PIL) è possibile. Ciò avviene se il deficit pubblico alimenta la domanda aggregata per una somma maggiore della spesa iniziale in deficit (ossia, se il moltiplicatore della spesa è significativo), a condizione che il costo del debito sia inferiore al tasso di crescita dell'economia. Si assume, infine, nel ragionamento che la politica monetaria sia fuori gioco, ossia che i tassi stiano per qualche tempo intorno allo zero. In Italia il costo del debito è pari - sulla media delle scadenze delle obbligazioni dai tre mesi ai trenta anni - al 4% circa. Poniamo che resti invariato a fronte della ripresa della spesa pubblica in deficit. La crescita economica (reale e nominale) che riduca il peso (percentuale) del debito pubblico che si dovrebbe avere deve perciò essere superiore al 4%. La crescita economica si compone di un tasso di inflazione (precisamente il deflatore del PIL) che è pari al 2% (il valore corrente) e di una crescita reale che deve essere pari al 3% (la crescita negli ultimi anni è stata pari alla metà). Il 5% è perciò un numero molto alto per l'Italia. Negli Stati Uniti, invece, il costo del debito è decisamente inferiore al nostro, e una crescita elevata di un'economia così elastica è sempre possibile, ragion per cui De Long e Summers sostengono che negli Stati Uniti si può avere una spesa pubblica in maggior deficit senza un aumento (in percentuale del PIL) del debito.
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La politica economica – la politica monetaria e quella fiscale nel mondo anglosassone e nipponico - spinge la crescita. Ciò che avviene modulando i tassi praticati dalla Banca Centrale in modo che si spinga in giù il costo del denaro e con la Banca Centrale che compra il debito pubblico, se questo è necessario. La politica monetaria è quindi tendenzialmente lasca, e quella fiscale è tendenzialmente in deficit. Perché mai quella fiscale è tendenzialmente in deficit? Con una domanda aggiuntiva - in deficit - di origine pubblica che copre il vuoto prodotto dalla domanda latitante di origine privata, ecco che si ha una spinta che è coperta dall'offerta. Le imprese per far fronte alla maggior domanda devono aumentare l'occupazione. Se le cose stessero così (e se fossero state così anche in passato), ossia se le cose fossero così semplici e persuasive, perché mai si ha chi – soprattutto nell'euro area - non le vuole perseguire (e non le ha volute perseguire in passato)? Le obiezioni sono due. La prima. La spesa pubblica spinge nella direzione della crescita, se, a fronte di una spesa di 100 euro cui non corrispondono imposte per 100 euro, l'economia cresce per più di 100 euro, poniamo 150 euro, ossia se il moltiplicatore del reddito è maggiore di 1 (150/100=1,5). La spesa aggiuntiva di 100 è finanziata attraverso l'emissione di obbligazioni, per cui il debito pubblico è aumentato di 100. Questo però non è un problema, perché l'economia è cresciuta di 150 euro e il debito pubblico di 100, e dunque al margine il rapporto debito PIL è sceso (100/150=0,75). Se però così non fosse, ossia se il moltiplicatore della spesa pubblica fosse di 1, oppure inferiore, la spesa pubblica in deficit spiazzerebbe il settore privato e spingerebbe verso l'aumento del debito in rapporto al PIL. La seconda. Ammettiamo che il moltiplicatore della spesa sia maggiore di uno, ossia ammettiamo che esso sia “virtuoso”. Siamo propri sicuri che, una volta che la spesa pubblica sia stata espansa con successo in funzione anti-ciclica, essa poi rientri? In altre parole, pensiamo che il deficit pubblico, svolto il compito, rientri? Oppure pensiamo che la spesa pubblica per sua natura – essa è, alla fine, “catturata” dai gruppi organizzati - crescerà in modo perpetuo?
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Secondo la Banca dei Regolamenti Internazionali si avrebbero - in caso di rialzo dei rendimenti – delle perdite notevoli (grafico I.3 pagina 9: http://www.bis.org/publ/arpdf/ar2013e1.pdf ). Nel caso del Giappone, che ha un debito pubblico pari al 200% del PIL – si avrebbe una perdita in conto capitale sullo stock di obbligazioni pari al 40% del PIL. Per l'Italia la stima è pari al 20% del PIL. La Banca dei Regolamenti stima gli effetti di un rialzo del 3% assoluto di tutta la "curva dei rendimenti", ossia 300 punti base. Secondo il Fondo Monetario (IMF, Global Financial Stability Report, Ottobre 2013, pagina 21, Tavola 1.2) si ha un portafoglio mondiale di obbligazioni (lo stock) del valore di 40 mila miliardi di dollari, con una durata finanziaria di sei anni. Il risultato dei loro conti è che per ogni uno per cento assoluto di rialzo di tutta la curva dei rendimenti, ossia 100 punti base, si avrebbe una perdita di poco meno del 6% del valore dello stock.
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