Apriamo un secondo dibattito sull'Euro-zona. Il primo era stato sull'austerità (1), questo è sul piano di Juncker (2). E' prima esposto il piano a grandi linee. La conclusione è abbastanza scettica. Il primo intervento al dibattito mostra meglio i punti deboli del succitato piano.
1- Premessa alla discussione.
Per inquadrare il piano proposto dal presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker – riguarda gli investimenti in infrastrutture in parte minore finanziati dal denaro pubblico e in parte maggiore da quelli privati, un piano che ravvivi la spesa per investimenti che si è di molto ridotta da quando c'è la crisi – conviene partire da un lunga digressione.
Quando un'economia rallenta, la banca centrale cerca di ridarle vigore. Il minor costo del denaro spinge gli investimenti. L'economia smette di rallentare e poi si riprende. Il tasso di sconto – il tasso di interesse richiesto dalla banca centrale alle banche di credito ordinario - è stato abbassato nell'Euro area fino a quasi lo zero, ma gli investimenti non sono ripartiti. Gli investimenti e l'occupazione, infatti, ripartono se gli imprenditori pensano che in futuro ci sarà una maggior domanda, più precisamente una domanda superiore a quanto sono in grado di produrre oggi con gli impianti e la manodopera in essere. Se non lo pensano, non investono e non assumono.
Il costo del denaro diventa così meno importante delle aspettative intorno alla domanda. Siamo così arrivati l'idea che, in un mondo travolto dall'incertezza intorno al futuro, deve agire chi ha orizzonti temporali lunghi e non ha vincoli finanziari, ossia lo Stato attraverso la spesa pubblica in deficit. Lo stato spende più di quanto raccoglie con le imposte e, in presenza di sottoccupazione degli impianti e della manodopera, riesce, generando una domanda addizionale dal nulla, ad alzare la domanda più di quanto altrimenti avverrebbe. La maggior domanda rianima l'economia.
Insomma, quando si ha crisi, prima si agisce sul versante della politica monetaria, e, se questa non funziona, sul versante di quella fiscale. E tutto torna come prima. Questa è la ricetta macroeconomica classica. Si noti come nel ragionamento classico ci siano i flussi di reddito (investimenti, spesa pubblica) ma non gli stock (il debito pubblico), e come si assuma che la spesa pubblica in deficit, una volta che abbia assolto il compito di rianimare l'economia, cessi.
La spesa pubblica, invece, quando riparte non si ferma, perché si creano nuovi interessi che desiderano che essa si mantenga al livello più elevato: la maggior spesa pubblica invece di essere ciclica, ossia funzionale allo smussare le variazioni dell'economia, diventa permanente. Se diventa permanente in presenza di un elevato debito pubblico, come è oggi il caso dell'Europa e non solo, diventa poi molto difficile portare quest'ultimo sotto controllo. Con un debito pubblico molto elevato l'economia diventa più vulnerabile agli shock futuri.
Se però la spesa pubblica non fosse generica – come si avrebbe nel caso di maggiori assunzioni di dipendenti pubblici, ma dedicata - come si avrebbe con un programma di investimenti in infrastrutture finanziato soprattutto dai privati sebbene con garanzia pubblica, una spesa che non sarebbe contata come debito pubblico, insomma il piano Juncker – avremmo fatto un passo avanti nella direzione di bilanciare la carenza di domanda che si ha in Europa. La spesa pubblica in infrastrutture ha poi il vantaggio di avere un moltiplicatore elevato – ossia essa genera un reddito maggiore della spesa iniziale. Con la spesa pubblica dedicata (in infrastrutture) e non generica (in assunzioni), si ottiene una maggior domanda, senza che si alimentino nuovi interessi che diventano permanenti.
In astratto tutto sembra funzionare. Il piano Juncker dovrebbe perciò essere accolto con soddisfazione. Esso mette d'accordo chi crede che la politica monetaria ultra espansiva non sia sufficiente per il rilancio economico (come afferma il governatore della Banca Centrale Europea Mario Draghi), con chi crede che gli acquisti di titoli di stato da parte delle banca centrale aiutino poco la ripresa, mentre agiscono come incentivo per non attuare le riforme (come afferma il governatore della banca centrale tedesca Jens Weidmann). Insomma, la banca centrale – con il piano Juncker - conta meno nella politica economica, perché aumenta il peso di quella fiscale, che però non genera nuovo debito pubblico, perché la spesa in infrastrutture è finanziata soprattutto dai privati.
Dove si nascondono le criticità? Sul piano dell'esecuzione. Ossia, di tutti i progetti che vengono sottoposti ad esame a Bruxelles, quali passano e quali no? Passa il cablaggio di Salonicco (tanto per dire), o quello di Palermo (tanto per dire), oppure tutte e due? E se la Grecia mobilita del denaro per i suoi piani di investimento, e questi sono bocciati a favore di quelli dell'Italia, che cosa accade? Può accadere che nessuno mobiliti dei finanziamenti fino a quando non è sicuro che i suoi investimenti verranno promossi? Insomma, l'idea del piano Juncker è brillante, ma quando si passa all'esecuzione sorgono dei dubbi. Dubbi che sono legati alla composizione dei molti interessi.
Si ha chi accetta il punto di vista – quella che abbiamo fin qui esposto - della spesa addizionale promossa dall'autorità politica, ma che ha dei dubbi sulla sua esecuzione, e chi lo contesta in toto. Perché mai - questo è l'altro punto di vista - invece di incentivare gli investimenti attraverso la mano pubblica, non si tagliano le imposte in misura significativa, lasciando così al settore privato la decisione di come allocare le risorse liberate dal minor carico fiscale? Inizialmente si avrebbe un maggior deficit pubblico (le spese restano invariate e le entrate diminuiscono), ma poi la ripresa alzerebbe il volume di imposte (a parità di aliquote), riducendo il deficit pubblico iniziale. In questo caso il dubbio, così come nell'altro caso il dubbio era sul piano dell'esecuzione, è che le minori imposte non si traducano immediatamente in maggiori investimenti.
2- La discussione
Dopo sette anni di recessione, l’Euro-zona ha una parte (quella mediterranea) che appare estremamente indebolita. Qualcuno sostiene senza le forze per risollevarsi da sola. Senza mettere in discussione l’euro, è chiaro però che uno degli effetti dell’euro sia stato di congelare le ragioni monetarie di scambio. Ora, in un continente assai vasto fatto di economie non abbastanza grandi, gli scambi sono essenziali per la prosperità e le ragioni di scambio flessibili servono a indirizzare gli scambi in senso virtuoso. Ossia i paesi possono specializzarsi secondo i propri vantaggi comparati. Ma se le ragioni di scambio sono congelate sotto il profilo monetario, l’unico modo di far rivivere un po’ di flessibilità e orientare gli scambi è quello dei prezzi e dei salari flessibili sia verso l’alto che verso il basso. Il che non si ha. Non si ha da almeno sette anni. I salari in Germania sono sticky verso l’alto non meno di quanto in Italia siano sticky verso il basso. I costi non salariali del lavoro idem.
La conseguenza di questo è che gli scambi divergono dalla direzione dei vantaggi comparati espressi dalla abbondanza/scarsità relativa di risorse, per il che il sistema produttivo, che è guidato dal capitale e non dal lavoro e che è guidato pertanto da un fattore mobile e flessibile non si sposta dove le risorse sono più sotto impiegate, anzi attrae risorse dove sono sovra impiegate, a tassi di salario costanti. Il che va esattamente contro un equilibrio ottimale.
L’austerità non è neutrale in questo ragionamento. Le politiche di austerità hanno una proprietà utile: evitano di generare pesi eccessivi sulle generazioni future. Ma in questo contesto sono semplicemente fuori luogo. Perché se alla mancanza di ragioni di scambio flessibili (per ragioni monetarie o per caratteristiche dei mercati dei fattori) si associano politiche di austerità, queste, per quanto buone dal punto di vista intergenerazionale, contraggono ancora di più le economie carenti di domanda, ossia ottengono l’effetto opposto di quello che un decisore centrale (che non esiste, intendiamoci) di politica economica vorrebbe ottenere.
A questo punto entra in campo il piano Juncker, 315 miliardi di risorse prevalentemente private ma mobilitate da un pivot di 21 miliardi pubblici. Un’idea brillante?. Io non ne sono convinto. Il suo limite non è la sua attuazione, ossia che sia possibile attuare un piano che già in partenza apre una contesa sulla sua spesa. Ci sono limiti di progettazione.
Il primo limite del piano è la sua dotazione. Posto che ne siano spendibili 315 (per il momento ci sono 21 miliardi più l’eventuale leva dei 21 miliardi), il vuoto di investimenti annuale da contrastare è del due per cento del PIL europeo, ossia di 300 miliardi per anno, e non di 300 miliardi nel complesso. Immaginando di investire l’intera dotazione in cinque anni, avremmo comunque una dose di farmaco complessivamente pari a un quinto del necessario. Meglio che niente, ma troppo poco in ogni caso.
Seconda questione: il piano dovrebbe avere priorità geografiche basate strettamente sul tasso di disoccupazione. Ossia, in Germania e in Regno Unito non si dovrebbe investire nulla, mentre si dovrebbe investire massicciamente in Italia, Spagna, Grecia, Portogallo e Francia, ma questo non è scritto da nessuna parte.
Terza questione, i contributi alla dotazione del fondo dovrebbero venire prevalentemente dai Paesi del Nord Europa. Ma per fare questo occorrerebbe un’autorità fiscale europea. Draghi l’ha chiesta, la Banca Centrale Tedesca ha già detto che non serve. L'ultima volta che abbiamo chiesto un'autorità europea è stato con la PESC (la politica estera a direzione comune): quanto ci abbiamo messo e chi è soddisfatto del risultato?
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