Non è cambiato granché nei mercati finanziari: si hanno dei rendimenti minimi se non negativi in campo obbligazionario, e si hanno le azioni che si scambiano a dei multipli che quantomeno non sono inferiori a quelli passati.
Se i rendimenti delle obbligazioni sono all'uno per cento, ecco che, se le azioni rendono di più, allora – secondo molti - queste ultime sono attraenti anche se care. Saranno anche care – questo è l'argomento principe dei succitati molti - ma il “premio per rischio” – la differenza fra il rendimento delle azioni e delle obbligazioni – è ben coperto, perché è molto alto. Perciò, finché persiste il basso rendimento delle obbligazioni, le azioni stanno in piedi, o possono salire.
La prima critica che muoviamo all'argomento principe è la distinzione fra i rendimenti per cassa (dividendo su prezzo), e quelli per competenza (utile su prezzo), e sulla copertura (il costo dell'assicurazione) della differenza. Se si assicura la differenza per avere un rendimento maggiore di quello obbligazionario, ecco che il premio per il rischio evapora (1). La seconda critica è sulla distribuzione del reddito che, inibendo i consumi che non siano alimentati dal credito, accresce la volatilità potenziale degli utili (2). La terza critica è sul livello di indebitamento delle imprese, livello che non è in grado di reggere un eventuale forte rialzo dei tassi e dei rendimenti (3).
Passando ad un ragionamento meno specifico, si possono fare queste considerazioni. La valutazione delle azioni è circa in linea (in realtà è più alta, se si toglie la “bolla” trainata dalla tecnologia, come mostra il primo grafico, dove si ha il rapporto del prezzo sulla media mobile decennale degli utili, ma non è il momento di dilungarsi nella discussione) con quella storica.
Già, ma la valutazione storica delle azioni dipende - per la propria spinta “lunga” - anche dalla crescita della produttività, che però si è fortemente ridotta, come mostra il secondo grafico, laddove si hanno le variazioni decennali della produttività pro capite statunitense. La valutazione delle obbligazioni, invece, non è in linea con quella storica. I prezzi sono esageratamente alti, per cui i rendimenti sono esageratamente bassi. Usiamo l'avverbio “esageratamente”, perché le obbligazioni scontano sì la caduta della crescita – come appunto misurata dall'andamento della produttività - ma probabilmente la scontano “troppo”.
I mercati finanziari perciò sono “gonfi”. Se il rendimento delle nuove obbligazioni salisse, i prezzi di quelle vecchie scenderebbe (la cedola è fissa, per cui il prezzo delle vecchie emissioni deve scendere per alzare il loro rendimento), mentre si ridurrebbe il premio per il rischio, che è ciò che tiene in alto il prezzo delle azioni. Queste ultime dovrebbero – per offrire un premio per il rischio accettabile - alzare il proprio rendimento. Ciò può avvenire solo con una forte crescita degli utili e dei dividendi - un evento non molto probabile, perché, se il costo del denaro sale, l'indebitamento comincia a pesare sui bilanci - oppure con una discesa dei prezzi.
Insomma, i mercati azionari sono “appesi” al filo del bassissimo costo del denaro e del bassissimo rendimento delle obbligazioni. Non tutto il mercato azionario però ne trae giovamento, come può sembrare, perché le banche e le assicurazioni non riescono ad avere dei margini accettabili con questo livello dei tassi e dei rendimenti.
Nota a margine. Cresce il deficit italiano nei confronti del sistema finanziario europeo. L'Italia è in avanzo commerciale (dovrebbe avere un surplus – quindi un credito, oppure un minor debito) verso gli altri paesi europei, ma sono le uscite dei capitali (esteri che escono, italiani che escono) a fare la differenza (si ha un debito crescente). Non essendo negli ultimi tempi peggiorata l'economia italiana, ma leggermente migliorata, una spiegazione è che c'è chi, nell'eventualità di una prossima crisi, ritira i capitali (4).
4 - http://www.ilfoglio.it/economia/2016/10/09/debito-bankitalia-allarme-berlino___1-v-148845-rubriche_c328.htm
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