Durante l'estate si è entrati nel vivo della discussione sul riduzione della spesa pubblica. Ripubblichiamo tre contributi. Il primo sull'entità del taglio; il secondo sulla concentrazione territoriale del taglio; il terzo sull'assenza di proposte esplicite sul taglio. Ecco il terzo.
Siamo entrati nel vivo del dibattito politico. Si taglia la spesa pubblica, non la si taglia. Si tagliano le imposte, non le si taglia. Si vende il patrimonio pubblico, non lo si vende. Nella tabella si hanno le diverse posizioni. Per “area liberale” si intende quella galassia dove per ora spicca la “lista Giannino”.
Taglio spesa | Taglio imposte | Vendi patrimonio | |
PD | no | ni | no |
PDL | ni | si | si |
Area liberale | si | si | si |
Con Monti la spesa pubblica comincia ad essere studiata in previsione del taglio dei servizi inefficienti (la spending review). Su questo per ora nessuno eccepisce, ma il punto è vedere che cosa accadrà quando si procederà a tagliare per davvero. Il PD sostiene che la spesa pubblica non va tagliata (1), il PDL sull'argomento glissa (2). Per evitare di tagliare la spesa pubblica – volendo portare il bilancio dello stato in pareggio in assenza di crescita – si possono alzare le imposte e/o vendere il patrimonio pubblico. Il PD salta il nodo della scelta delle maggiori imposte verso la vendita del patrimonio e conta, alla fine, solo sulla crescita (1), il PDL vuole ridurre le imposte, non conta sulla crescita, e perciò punta, alla fine, sulla vendita del patrimonio (2).
Perché i partiti maggiori non vogliono tagliare la spesa oppure glissano? La spesa pubblica non è solo erogazione di servizi tradizionali da “stato minimo” (= ordine pubblico, difesa, giustizia) e da “stato sociale” (= sanità, istruzione, pensioni), ma è anche all'origine del voto di molti. E qui abbiamo il nodo. Non sempre il voto è informato, e dunque accade che si possa non intravvedere il proprio interesse (3). Possiamo affermare – in prima approssimazione - che il voto “delle masse” è semplicemente volto a ottenere dei beni e dei servizi maggiori di quelli che sarebbero ottenuti sulla base del solo reddito diretto. Nessun politico che appartenga a un “partito di massa” può perciò perdere il favore “delle masse” medesime e di conseguenza non potrà mai dire che taglierà la spesa pubblica durante una campagna elettorale. Difficile poi che accetti di tagliarla a fondo una volta eletto, perché non sarebbe rieletto una seconda volta.
Questo spiega il NO del PD, il NI del PDL e il SI dell'Area liberale, perché quest'ultima conta solo di ottenere un numero di voti sufficiente per condizionare gli schieramenti maggiori. Non potendo affrontare “di petto” il nodo della spesa, ecco che si conta sulla crescita, oppure sulla vendita del patrimonio. La crescita non dovrebbe palesarsi per molto tempo, e perciò il PD chiede troppo alla buona sorte, e la vendita del patrimonio che propone (non solo) il PDL è (ai miei occhi) un concetto oscuro.
Si immagini un mercato finanziario perfetto. Il debito pubblico lordo sia pari al 120% del PIL e il patrimonio pubblico sia formato anche da imprese quotate (come l'Eni, l'Enel, ecc) con una valore pari al 20% del PIL. Il debito pubblico netto sarà allora pari al 100% del PIL. Il mercato finanziario perfetto non ha bisogno delle privatizzazioni per sapere che il debito effettivo dello stato è inferiore a quello facciale. Se lo stato privatizza a un prezzo inferiore al valore delle sue imprese, ci rimette. Se privatizza a un prezzo maggiore, ci rimette il settore privato. Dunque perché si privatizza? La tesi in voga negli anni Novanta era che il settore privato avrebbe gestito meglio le imprese. Il che non è sempre vero. Le telecomunicazioni generano dei flussi di cassa spaventosi. Segue che viene la tentazione di scalarle con i loro soldi: mi indebito, lancio un'OPA, ottenuto il controllo della società ripago il debito. Gli oneri finanziari volti a ripagare il debito degli “scalatori” riducono però lo spazio per gli investimenti della società medesima. Dunque, alla fine, si hanno meno investimenti “reali”. E' valida l'idea di privatizzare il patrimonio che possiamo definire “dormiente”, come le caserme in disuso? Si, se, posto che ci sia ancora una domanda di spazi da ristrutturare o riedificare, si abbia anche una dotazione in partenza di tutte le licenze. Altrimenti, non si hanno compratori.
Queste le obiezioni da un punto di vista concettuale. Da un punto di vista fattuale. Il PDL propone di privatizzare per 400 miliardi di euro. Il debito pubblico sarebbe ridotto di altrettanto e dunque si avrebbe un rapporto debito sul PIL pari al 100%. Un numero che suppongo trovino “magico” per far cadere le tensioni dei mercati. Da dove vengano fuori questi 400 miliardi non è spiegato. Poi si aggiunge che la privatizzazione – attuata attraverso un fondo che assorbe il patrimonio pubblico e che si finanzia emettendo obbligazioni - porterebbe alle case dello Stato un 15-20 miliardi l'anno. Dunque ci vorrebbero molti anni per raggiungere l'obiettivo. Il costo del debito pubblico è pari al 4% circa. Dunque il Tesoro risparmierebbe il 4% di 20 miliardi, meno di un miliardo l'anno (che però va cumulato, man mano che si privatizza). Un risparmio che peraltro va corretto, perché se si vendono delle attività redditizie il Tesoro non incassa i loro dividendi. Per esempio, se si privatizza l'ENI, che vale molto, il debito pubblico, che è di quasi 2 mila miliardi, scende di poco, così come scendono di poco gli oneri finanziari del debito, mentre vengono meno i dividendi che il Tesoro incassa dall'Eni. Insomma, un maquillage.
Questo è un esempio del dibattito politico appena iniziato, perché le elezioni si terranno (se non anticipate) nell'estate del prossimo anno. Una prima conclusione? Le posizioni fin qui espresse dai partiti maggiori non militano a favore di uno spread contenuto, se prendiamo per buona l’ipotesi che a determinare lo spread non siano tanto i conti dello Stato così come sono, quanto la loro prospettiva di riprendersi.
(1) http://www.linkiesta.it/spesa-pubblica-tabu-intervista-pd-stefano-fassina
(2) http://www.pdl.it/notizie/23694/come-abbattere-il-debito-pubblico-e-diminuire-la-pressione-fiscale
(3) Gli elettori “ricchi” potrebbero non seguire la visione della scuola keynesiana semplificata secondo cui, in condizione di non piena occupazione dei fattori (cioè se esiste disoccupazione e gli impianti sono utilizzati parzialmente), la distribuzione del reddito a favore dei meno abbienti stimola la crescita, perché i meno abbienti consumano più degli abbienti: in questo caso gli abbienti, contando su un maggiore reddito futuro, potrebbero votare per maggiori carichi di imposta futuri volti a pagare il debito acceso oggi per lanciare la crescita. Gli elettori “poveri” potrebbero non seguire la visione della scuola austriaca, che afferma che l’alterazione del libero andamento dell’economia, attraverso gli interventi pubblici continui, riduce nel lungo periodo la crescita economica: in questo caso i meno abbienti potrebbero votare per una spesa pubblica per loro meno favorevole. Il modello che seguiamo asserisce semplicemente che, se il reddito di un elettore cade sotto il livello di reddito medio, egli voterà per maggiori imposte, ossia per avere più reddito (da spesa pubblica) traendolo da altri. Simmetricamente, se il reddito di un elettore cade sopra il livello medio, egli non voterà per le maggiori imposte, perché il suo reddito sarebbe trasferito (attraverso la spesa pubblica) ad altri.
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