L’8 di febbraio è toccato a Caja España e Banco Gallego. Il Frob, il fondo di ristrutturazione bancaria ordinata, ha dato una valutazione economica negativa ai due istituti che potranno ora scegliere tra la fusione con un’entità più grande e la nazionalizzazione. Ma la lista dei brand del credito spagnoli prossimi all’estinzione non è si è ancora esurita: Bmn, Caja3 e Liberbank proveranno la strada della borsa per cercare nuovo capitale. Un’impresa già tentata da molti istituti di credito iberici a corto di liquidità in questi anni, ma che raramente ha dato i risultati sperati.

Caja España e Banco Gallego sono le ultime vittime dell’epidemia che ha decimato banche e casse di risparmio iberiche: nel 2009 erano cinquanta gli istituti di credito iberici, oggi sono una decina. E, secondo molti analisti, nel giro di un anno ne rimarranno solo nove: Santander, Bbva, CaixaBank, Ibercaja, Kutxabank, Banco Popular, Sabadell, Unicaja e Bankinter. Il presidente di Bbva, Francisco González, si è spinto ancora più in là, ipotizzando che al termine della crisi resteranno solo sei giganti del credito.

Secondo i quotidiani iberici, la nuova mappa bancaria è stata tracciata dalla Troika e dal Ministero dell’economia spagnolo nell’ambito dell’accordo per il maxi prestito europeo che ha permesso il salvataggio di Bankia e di altri istituti di credito. I gruppi bancari in deficit di capitale sono stati individuati attraverso uno stress test realizzato dalla società di consulenza Oliver Wyman nel settembre scorso. Tra gli istituti di credito che non hanno superato i test di resistenza, quattro sono già stati nazionalizzati: Bankia, CatalunyaBank, Novagalicia Banco e Banco de Valencia. Il governo di Madrid per ricapitalizzare questi quattro istituti - che da soli rappresentano il 38 per cento degli attivi bancari spagnoli - dovrà spendere 46,2miliardi di euro. Con la prossima ondata di ristrutturazioni, quella che colpirà Caja3, Ceiss, Liberbank, Bmn e Novagalicia, la spesa per il consolidamento delle banche arriverà a 53,7 miliardi di euro. Il governo spagnolo spera di ridurre questa cifra di 14 miliardi, una cifra che le banche in difficoltà si sarebbero impegnate a reperire autonomamente attraverso due canali: cercando capitale privato attraverso la dismissione di asset, e cedendo attivi tossici al Sareb (la Bad Bank creata da Rajoy).

Alla radice del collasso del sistema creditizio c’è l’esplosione della bolla immobiliare che si era gonfiata ininterrottamente per un decennio. L’origine di tutti i mali di oggi è la Ley de suelo (legge sul terreno) del 1998 che ha permesso di ampliare a dismisura la quantità di terreni urbanizzabili. Secondo la Sociedad de tasación, la principale società di consulenze immobiliari spagnola, nel decennio successivo all’introduzione della normativa sull’urbanizzazione i prezzi delle abitazioni sono cresciuti del 180 per cento. In soli sette anni l’offerta di alloggi di nuova costruzione è passata dalle 334mila unità del 2000, alle 734mila del 2007. Con una dinamica analoga a quella in voga dall’altra parte dell’Atlantico, gli istituti di credito (in particolar modo le casse di risparmio) hanno finanziato una miriade di progetti, molti dei quali tanto faraonici quanto inutili, ricorrendo alla cartolarizzazione dei crediti.

Il meccanismo si è inceppato con il crollo di Lehman: non appena sono iniziate le prime restrizioni al credito, la morosità del settore immobiliare è esplosa passando dall’1,98 per cento del 2008 al 22,8 dell’anno scorso. Un decennio di crediti facili ha lasciato la Spagna con un debito privato monstre, paragonabile in Europa solo a quello inglese: a fine 2011 raggiungeva il 321 per cento del Pil e, nonostante gli sforzi del governo centrale, nell’anno successivo è sceso di un misero 3 per cento.

Uno stimolo importante per fare crollare il domino finanziario spagnolo è venuto dalle stesse banche: nel maggio scorso i presidenti dei tre principali istituti di credito iberici – Santander, Bbva e La Caixa – hanno spinto il Ministro dell’Economia Luis de Guindos a richiedere 30 miliardi di euro di nuove riserve alle banche in difficoltà. Il primo effetto di questa misura è stata la nazionalizzazione di Bankia, la quarta entità finanziaria del Paese e la prima per quanto concerne il mercato interno. Nella lunga agonia del Banco Financiero y de ahorros (di cui Bankia è l’entità commerciale) si possono ritrovare tutti i mali e le storture del sistema di credito spagnolo: un eccesso di crediti che ha indebolito la leva finanziaria, un sistema di governance inefficiente (perché figlio di logiche esclusivamente politiche) e un’esposizione eccessiva nei confronti del settore immobiliare (al momento della nazionalizzazione si contavano 41,7 miliardi di attivi immobiliari tossici).

Nata nel marzo 2011 dalla fusione di sette casse di risparmio in difficoltà (con in testa Caja Madrid e Bancaja) Bankia possiede fin da subito il più ampio portafoglio di attivi immobiliari di tutta la Spagna (38 miliardi di euro). Tra questi c’è una spaventosa quantità di crediti inesigibili. L’obiettivo del maxi-accorpamento che ha segnato il battesimo di Bankia era creare un’entità sufficientemente grande da stimolare fiducia negli investitori e, conseguentemente, in grado di captare liquidità nei mercati. Il risultato è stato invece la creazione di una banca Too big to fail, ma troppo debole per sopravvivere senza l’intervento del Frob, cioè il denaro dei contribuenti spagnoli prima ed europei in seguito. Nel luglio 2011, dieci mesi prima del salvataggio, Bankia era sbarcata in borsa con l’obiettivo di trovare 4 miliardi di euro di nuovo capitale. Una cifra ritenuta insufficiente dalle merchant bank che hanno gestito l’operazione, ma che alle richieste di aumentare questa cifra fino a 10 miliardi si sono viste opporre un Niet dai vertici delle casse di risparmio confluite in Bankia: la volontà di non diluire le partecipazioni per continuare a guidare il Titanic della finanza spagnola ha prevalso su ogni logica di razionalità economica.

Questo episodio aiuta a comprendere il male congenito delle casse di risparmio iberiche: istituti parastatali ai cui vertici siedono rappresentanti del mondo politico (e sindacale) che, al contempo, spesso gestiscono le aziende di promozione immobiliare cui per oltre un decennio sono stati concessi generosi crediti dalle casse di risparmio stesse. Un groviglio politico-affaristico tipicamente mediterraneo che ha trovato nelle cartolarizzazioni importate da Wall Street lo strumento adatto a moltiplicare i crediti all’infinito. L’entrata in borsa di Bankia si è rivelata da subito un fallimento: l’istituto di credito è riuscito a collocare solo 3,1 miliardi di euro, di cui appena il 2 per cento provenienti da investitori esteri. Quasi tutte le azioni sono state acquistate piccoli azionisti che, nel giro di dodici mesi, hanno visto i loro titoli perdere l’83 per cento del valore iniziale. Intanto il buco nero di Bankia è continuato a crescere e gli stress test indicano che, per rendere la banca solida, serviranno altri 24,7 miliardi (oltre ai 4,5 già ricevuti).

Se la storia di Bankia è emblematica per comprendere i problemi attuali del sistema bancario spagnolo, gli istituti che sopravvivranno alla crisi stanno costruendo le fondamenta dalle quali ripartire. I due giganti del credito, Santander e Bbva, che grazie alla marcata proiezione internazionale stanno soffrendo meno di altri, hanno completato gli accantonamenti di capitale richiesti dal governo. Molti altri istituti (Sabadell, Caixabank e Bankinter) hanno iniziato a restituire il prestito d’emergenza concesso dalla Bce. Il problema principale rimane il crescente livello di crediti in sofferenza di famiglie e piccole imprese, una costante nei bilanci di tutte le banche spagnole. Fino a che le banche non avranno riportato su livelli accettabili la percentuale di attivi tossici che hanno in pancia, il credito rimarrà bloccato e la ripresa resterà un miraggio. D’altro canto, la ristrutturazione procede a tappe forzate e si intravedono alcuni deboli segnali per un prossimo cambio di rotta.