Inquadriamo prima il problema del rilancio dell'economia dell'Euro-zona. Volens nolens si arriva al nodo della politica fiscale espansiva, che non può essere quella della spesa generica, ma quella della spesa dedicata in infrastrutture. E' l'idea del piano Juncker, che però potrebbe essere insufficiente. Il rilancio della spesa per investimenti potrebbe allora seguire una strada diversa e complementare con il finanziamento diretto dei progetti di investimento minori da parte della Banca Centrale. L'inquadramento del problema del rilancio è di Giorgio Arfaras, mentre la proposta di un piano complementare è di Giuseppe Russo.
Prima parte: il problema del rilancio
La vicenda della crisi dell'Euro-zona è oggetto da anni del nostro lavoro. Abbiamo analizzato le ragioni del “grigiore” del governo dell'Euro-zona. Il “grigiore” è stata una precisa scelta politica, volta ad avere un sistema di pesi e contrappesi che impedisse il riemergere della politica “cesaristica” degli anni Trenta. Abbiamo analizzato la scelta di avere dei bilanci statali dei Paesi componenti l'Euro-zona in pareggio (il fiscal compact). Se i bilanci statali sono in pareggio, allora si può avere un bilancio federale in deficit, proprio come avviene negli Stati Uniti. La Banca Centrale Europea (BCE) ha salvato l'Euro-zona nel 2012 prima con il LTRO e poi con l'annuncio che si sarebbe fatto tutto il necessario per unificare l'Europa.
Oggigiorno abbiamo una politica monetaria tradizionale – quella che muove il tasso di interesse praticato dalla banca centrale alle banche di credito ordinario – ultra espansiva. Abbiamo una politica monetaria non ortodossa – quella che compra le obbligazioni sovrane e private – che si sta muovendo nella direzione dell'acquisto di obbligazioni private. Oggigiorno abbiamo una politica fiscale “neutra”, ossia abbia un sostanziale pareggio (con l'eccezione della Germania e dell'Italia che hanno un avanzo primario) del bilancio prima del pagamento degli interessi.
L'economia dell'Euro-zona però non si muove. Gli investimenti e l'occupazione, infatti, ripartono se gli imprenditori pensano che in futuro ci sarà una maggior domanda, più precisamente una domanda superiore a quanto sono in grado di produrre oggi con gli impianti e la manodopera in essere. Se non lo pensano, non investono e non assumono. Il costo del denaro diventa così meno importante delle aspettative intorno alla domanda.
Siamo arrivati l'idea che, in un mondo travolto dall'incertezza intorno al futuro, deve agire chi ha orizzonti temporali lunghi e non ha vincoli finanziari, ossia lo Stato attraverso la spesa pubblica in deficit. Lo stato spende più di quanto raccoglie con le imposte e, in presenza di sottoccupazione degli impianti e della manodopera, riesce, generando una domanda addizionale dal nulla, ad alzare la domanda più di quanto altrimenti avverrebbe. La maggior domanda rianima l'economia.
Insomma, quando si ha crisi, prima si agisce sul versante della politica monetaria, e, se questa non funziona, si agisce sul versante di quella fiscale. Questa è la ricetta macroeconomica classica. Si noti come nel ragionamento classico ci siano i flussi di reddito (investimenti, spesa pubblica) ma non gli stock (il debito pubblico), e come si assuma che la spesa pubblica in deficit, una volta che abbia assolto il compito di rianimare l'economia, cessi.
La spesa pubblica, invece, quando riparte non si ferma, perché si creano nuovi interessi che desiderano che essa si mantenga al livello più elevato. E la maggior spesa pubblica invece di essere ciclica, ossia funzionale allo smussare le variazioni dell'economia, diventa permanente. Se diventa permanente in presenza di un elevato debito pubblico, come è oggi il caso dell'Europa e non solo, diventa poi molto difficile portare quest'ultimo sotto controllo. Con un debito pubblico molto elevato l'economia diventa più vulnerabile agli shock futuri.
Se però la spesa pubblica non fosse generica – come si avrebbe nel caso di maggiori assunzioni di dipendenti pubblici, ma dedicata - come si avrebbe con un programma di investimenti in infrastrutture, una spesa che non sarebbe contata come debito pubblico, avremmo fatto un passo avanti nella direzione di bilanciare la carenza di domanda che si ha in Europa. La spesa pubblica in infrastrutture ha poi il vantaggio di avere un moltiplicatore elevato – ossia essa genera un reddito maggiore della spesa iniziale.
Con la spesa pubblica dedicata (in infrastrutture) e non generica (in assunzioni), si ottiene una maggior domanda, senza che si alimentino nuovi interessi che diventano permanenti. Il piano Juncker – il piano di rilancio della spesa in infrastrutture nell'Euro-area - dovrebbe perciò essere accolto con soddisfazione. Esso però potrebbe essere insufficiente, sia in termini quantitativi, sia perché non è detto che si investirebbe di più dove è maggiore l’output gap. Esiste una strada complementare al piano Juncker per rilanciare gli investimenti e in grado di superarne le limitazioni?
Seconda parte: la nostra proposta
1- Quadretto autobiografico che mette a fuoco la proposta
Domenica sono stato in una Ludoteca civica a una festa organizzata da un amichetto di mio figlio. La ludoteca è uno spazio attrezzato, normalmente al chiuso, volto alla socializzazione dei bambini attraverso il gioco. Svolge quindi una funzione educativa, oltre che una funzione ricreativa. L’impegno dell’ente pubblico è diverso che quello della scuola, dove la funzione educativa è privilegiata. Nella ludoteca si offrono alle famiglie con bambini spazi, attrezzature e occasioni di incontro, senza la presenza di educatori. In questo senso, l’impegno economico è limitato al capitale fisso impiegato. La ludoteca è un capitale pubblico.
Si può discutere se lo Stato debba offrire le ludoteche, oltre alle scuole. Se esse debbano essere gratuite o a pagamento. Se a pagare debbano essere tutti o solo i più abbienti e se il prezzo debba riflettere il costo o debba essere sussidiato. Tutti discorsi che si potrebbero fare e che, in tempi normali, potrebbero far spostare il pendolo tra Stato e mercato più a favore del mercato o più a favore dello Stato.
Ma non siamo in tempi normali. La ludoteca dove sono stato era in uno stabile con carenze di manutenzione. Non vi erano apparentemente certe sicurezze. Le porte interne erano vetrate. I diffusori del riscaldamento erano stati avvolti da gomma piuma alla buona dal personale di buona volontà, per evitare che costituissero un pericolo per i bambini. Non c’erano i doppi vetri e nessuna cautela particolare era posta al risparmio energetico. L’illuminazione era tradizionale e non a basso consumo. I servizi igienici erano funzionali ma vetusti.
La festa è stata comunque bella. Però mi sono detto: che cosa mai accadrebbe se una banca facesse un’apertura di credito al responsabile di quella struttura. Diciamo un’apertura di credito di 100 mila euro? La ludoteca, di 150 metri quadrati potrebbe spendere circa 700 euro al metro per ristrutturarsi. Potrebbe cambiare gli infissi interni ed esterni, in modo che siano sicuri e efficienti energeticamente; rifare i servizi igienici secondo le norme, poi ribassare i soffitti, mettere il riscaldamento sotto i pavimenti e fare un impianto elettrico efficiente. Potrebbe investire in smart materials, in vernici ecologiche (ci sono bambini) e in smart-technologies per risparmiare la luce, sfruttare i raggi del sole ecc. ecc.
Diciamo che i 100 mila euro verrebbero spesi in attività ad alta intensità di lavoro locale (ossia con alta propensione a consumare i redditi) e con un basso coefficiente di importazione, il che assicurerebbe un moltiplicatore della spesa (fatta a debito) di circa 3. Vuol dire che di lì a poco il conto economico delle risorse e degli impieghi registrerebbe un aumento di valore aggiunto (PIL) di 300.000, e che la pressione fiscale su 300.000 (44%) farebbe recuperare allo Stato circa 130.000 euro di entrate. Con 100 mila di essi si potrebbe estinguere il prestito iniziale. 10.000 si potrebbero poi destinare ad interessi. 20.000 si potrebbero restituire ai contribuenti.
Certo, ma sarebbe spesa pubblica? Sì, in deficit, ossia senza una copertura fiscale contemporanea. Ma con alcune qualità: a) non sarebbe ricorrente, ossia si sa quando inizia e si sa soprattutto quando finisce; b) la spesa corrisponderebbe a un incremento del valore del capitale pubblico. Quindi da un lato non ci sarebbe copertura del deficit che diventa debito, ma ci sarebbe un aumento degli asset (se lo Stato avesse uno stato patrimoniale) pari all’aumento di debito; c) sarebbe realizzata a Torino, dove il tasso di disoccupazione è del 12 per cento – ma il ragionamento vale ovunque si abbia recessione; d) sarebbe spesa nell’edilizia, settore nel quale negli ultimi due anni per esempio a Torino si sono chiuse due imprese al giorno. Questi due ultimi indicatori permettono di congetturare che la spesa pubblica aggiuntiva assorbirebbe risorse inutilizzate, senza eccitare l’inflazione salariale né quella generale.
2- Ed ecco la proposta di politica economica
A questo punto sorgono le seguenti domande: a) Il Piano Juncker realizza questo tipo di spesa? b) Il Quantitative Easing (QE) della BCE la finanzia? c) Che cosa si potrebbe fare? d) Che cosa si dovrebbe fare?
a) Il Piano Juncker realizza questo tipo di spesa? Per la verità no. Il Piano Juncker realizza opere probabilmente edili, e questo va bene, ma si concentra su investimenti che possano attrarre il cofinanziamento dei privati, il che significa che rialloca il tasso di investimento, ma non lo aumenta. Nel caso del Piano Juncker, in altri termini, gli investimenti non sono aggiuntivi, ma per lo più sostitutivi, il che deprime il moltiplicatore che si potrebbe ottenere proprio con investimenti aggiuntivi. Anche i tipi di investimenti sono differenti, perché possono essere solo investimenti misti, non investimenti pubblici puri. Infine, il Piano Juncker non offre garanzie di investire laddove è maggiore l’output gap, ossia la differenza fra l'andamento potenziale e quello effettivo delle economie. Potrebbe piovere sul bagnato (anziché sull’asciutto).
b) Il QE della BCE la finanzia? No, o comunque molto poco. Il QE schiaccerà ancora di più i rendimenti delle obbligazioni. Inoltre, solo se il QE fosse destinato all’acquisto di titoli pubblici emessi non per rifinanziare lo stock, ma per investire in conto capitale e in deficit, esso sarebbe un canale di finanziamento della spesa aggiuntiva. Il QE per come è concepito fino ad ora non finanzia una politica fiscale espansiva efficace, e quindi potrà solo abbassare il costo base del credito. Ma siccome non abbasserà il rischio, sarà più espansivo dove ce n’è meno bisogno.
c) Che cosa si potrebbe fare? Purtroppo poco. Allo stato il principale ostacolo non è tanto quello che che può o non può fare la BCE, ma quello che possono fare i governi con il finanziamento della BCE. Vigente il fiscal compact, per fare una politica espansiva bisognerebbe violarlo in dimensione significativa. In altri termini, il QE non è collegato al Piano Juncker, oltre al fatto che questo ultimo vale troppo poco e non ha né tempi certi di realizzazione e non è selettivo delle economie beneficiarie.
d) Che cosa si si dovrebbe fare? Si dovrebbe pensare a un diverso QE, come a un accesso creditizio diretto a prestiti della BCE da parte delle stazioni appaltanti dei lavori pubblici in Europa.
Si potrebbe partire da una specie di stand-by accordato ad ogni paese sulla base del suo output gap e distribuito tra le stazioni appaltanti in modo competitivo – con un'asta elettronica bottom-up. Ossia, anziché centralizzare in un fondo unico gli investimenti, si finanzierebbero con crediti diretti della BCE le proposte dirette delle amministrazioni pubbliche sulla base di pochi criteri prioritari: investimenti che aumentino il patrimonio /capitale pubblico, iniziabili entro 3 mesi, che possano raggiungere il 50% dei lavori entro 10 mesi, che possano essere ultimati con il finanziamento e che, preferibilmente, abbiano cofinanziatori privati e almeno il 10 per cento di spese innovative. Queste caratteristiche dovrebbero essere certificate da un auditor esterno.
L’aggiudicazione dovrebbe essere elettronica e competitiva, fino a saturazione del plafond nazionale collegato all’output gap nazionale. Peraltro, l’affidamento dei lavori da parte del beneficiario pubblico (ossia la scelta dei contractor) dovrebbe essere anche essa competitiva, ma semplificata e basata sul minore scostamento dalla media delle offerte. Eseguita l’opera a regola d’arte (secondo un audit esterno), il Tesoro del Governo di cui fa parte l’amministratore beneficiaria surrogherebbe il debitore, e l’amministratore beneficiaria potrebbe partecipare a successive aste fino a che la BCE ne valuti il caso e fino a che ne esista una necessità, determinato da un output gap eccessivo e da un tasso di inflazione inferiore al 2 per cento.
Quali vantaggi vediamo nella proposta? La possibilità di intervenire finanziando con la creazione monetaria una vera domanda pubblica aggiuntiva, di investimento, in aumento del patrimonio pubblico, in modo selettivo, in tempi certi, finanziando investimenti dotati di un moltiplicatore certo, senza determinare spese pubbliche ricorrenti e potendo dosare annualmente lo strumento in funzione del ciclo economico, dell’output gap di ciascun paese, del tasso di disoccupazione e del tasso di inflazione.
Questa misura potrebbe aiutare il Piano Juncker, che sembra già ingolfato dalle centinaia di domande trasmesse dagli Stati. Il Piano Juncker potrebbe essere tagliato sulle opere di un certo rilievo finanziario, sopra i 10 milioni di spesa, in modo da fare una vera selezione di merito dei progetti, riservando al QE diretto gli importi inferiori, ma cumulativamente in grado di fare la differenza se realizzati, data la taglia, nei tempi corretti.
Si può fare, concretamente? No, lo impediscono le regole, ma chi ha mai detto che queste non si possano cambiare?
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