Nel corso del tempo si è avuta un'evoluzione del dibattito – televisioni, giornali, pubblicazioni specializzate - intorno alla crisi greca. Inizialmente era economico. Un dibattito solo economico però non esiste, perché questo entra nell'immaginario collettivo (se così possiamo dire) solo deformandosi con le narrazioni. Laddove, sempre agli inizi, i greci erano le “cicale”, e quasi tutti gli altri Paesi europei – quelli non Mediterranei - erano le “formiche”. I greci avevano, infatti, dei numeri “spaventosi” sul fronte del deficit, debito, e via andando, mentre gli altri avevano dei numeri “virtuosi”. Il confronto - per come si manifestava nell'immaginario collettivo - era fra lo “sperpero” e la “virtù”, cui seguiva naturalmente la domanda: perché i virtuosi dovrebbero finanziare gli scialacquatori?

La Grecia si presta - per sua sfortuna - a colpire la fantasia dei virtuosi: l'usanza che la figlia nubile del pensionato defunto riceva la pensione del genitore, invece di essere giudicata come una modalità di funzionamento di una società patriarcale, era vista come sperpero di denaro pubblico. Per inciso - direbbe Carneade - sono vere entrambe le interpretazioni. Perciò la Grecia era quel Paese arcaico sia sotto il profilo dei costumi, sia sotto quello del sistema economico - ha poca industria, molto turismo, ed un settore pubblico ipertrofico - che ha sperperato - nel corso del decennio in cui è entrata nell'euro - tutti i capitali che aveva ricevuto in spesa statale, con quest'ultima volta a finanziare le clientele, fossero queste i dipendenti statali, i pensionati, piuttosto che i costruttori di opere pubbliche.

In sede di salvataggio della Grecia nel 2010-2012 - quando il debito pubblico, allora in mano ai privati, è stato quasi tutto assorbito dalla Trojka, che ne detiene ben l'ottanta per cento - si era chiesto di snellire il mercato del lavoro, di alleggerire l'onere delle pensioni, nonché di ridurre i dipendenti pubblici. Tutto questo è stato, in varia misura, fatto, ma l'economia greca, invece di riprendersi, si è contratta per circa un quarto, che non è poco. Ecco allora che sorge la domanda da parte dei greci: ma come, abbiamo applicato il salasso che ci avete chiesto e dopo anni stiamo peggio di prima? Non è però corretto dire “i greci”, perché molti erano a favore del salasso, come si è visto alle ultime elezioni, dove Syriza ha sì vinto, ma i fautori di un salasso più o meno marcato, come Nea Democrazia, non sono scomparsi. Come che sia, si è rafforzato il fronte degli anti-salasso, che è andato al governo.

Per “salasso” si intende un bilancio pubblico che è portato subito in pareggio e poi in avanzo prima del pagamento degli interessi (il surplus primario). In questo modo, lo stato, avendo più entrate che uscite, non emette più obbligazioni per finanziare la spesa corrente in deficit. E dunque deve emettere obbligazioni solo per pagare gli interessi sulle obbligazioni emesse in passato. Se le obbligazioni costano poco – come è il caso greco, perché il debito detenuto dalla Trojka costa ai greci solo il due per cento – ecco che, man mano che il PIL cresce, il debito dimagrisce. Più precisamente, il rapporto Debito/PIL ha un debito quasi costante e un PIL in crescita, perciò, salendo il denominatore con il numeratore quasi fermo, il peso del debito diminuisce.

Insomma, il salvataggio della Grecia c'è più o meno stato – nel mercato del lavoro, nelle pensioni, nei dipendenti pubblici – ma la crescita non si è palesata, nonostante il debito pubblico sia quasi tutto in mano alla Trojka, e che, oltretutto, costa solo il due per cento (come quello tedesco e la metà di quello italiano). Da qui la richiesta dei creditori di riforme ancora più incisive per farla sorgere, e, sempre da qui, la ribellione dei debitori. L'argomento è ostico. L'austerità, secondo alcuni, alimenta la crescita, perché, generando fiducia, spinge gli imprenditori a investire, e le famiglie a consumare. L'austerità, secondo altri, non spinge in alcuna direzione se la sfiducia è pervasiva, perché nessuno investe e nessuno aumenta i consumi. Ecco allora che sorge l'idea - con Syriza - che una minor austerità possa, rialimentando una pur parca fiducia, spingere nella direzione della crescita. Si può discutere a lungo sui due punti di vista. A giudizio di chi scrive si possono – di nuovo come Carneade - sostenere entrambi.

L'economia greca – già povera di suo - si è contratta al punto che i debiti giunti a scadenza - per quanto modesti - sono pari alla metà circa del suo PIL di un mese. Da qui l'impossibilità di pagarli, a meno che il debito giunto a scadenza non venga tosto rinnovato. E questa è la crisi degli ultimi tempi. Rinnoviamo il debito se “dimagrite ancora” dicono i creditori, “non possiamo più dimagrire” dicono i debitori, perché “siamo al limite”. A questo punto si cerca necessariamente il compromesso. I debitori chiedono un salasso meno marcato – come riforme e come avanzo primario – e i creditori pensano che - in fondo in fondo - possono accettare questo compromesso. Ed è la storia di questi giorni. “Meno austerità come promesso ai nostri elettori” dice Syriza, “niente soldi senza austerità come promesso ai nostri elettori” dicono i creditori.

Già, ma che cosa c'è dietro il desiderio di compromesso? L'euro non è un semplice accordo di cambio – come accade quando dei Paesi diversi decidono di fissare la parità del cambio fra le loro monete diverse - ma è il simbolo dell'unità europea, ed è perciò la camicia di forza per spingere all'unità politica. Se la Grecia esce dell'euro, ecco che il progetto europeo perde carica politica – si esce da un accordo di cambio, non da un simbolo - anche se quella economica dovrebbe restare invariata per lo scarso peso della Grecia (l'economia greca è più piccola di quella lombarda). Perciò il compromesso è razionale, perché tutti guadagnano. I greci sono spinti verso le riforme morbide che a loro, alla fine, convengono per modernizzarsi, mentre gli altri possono continuare a costruire l'unità europea.

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