Abbiamo l'andamento congiunturale e gli andamenti strutturali. Il primo è quello sul deficit, il debito, e i vincoli dell'Unione. In questo primo caso si può pensare – e non è poi così difficile - ad una via d'uscita temporanea che non aggravi troppo lo stato delle cose. Il secondo è quello del “nanismo” delle imprese e della Questione Meridionale. In questo secondo caso i nodi da sciogliere sono ben più complessi. Di questi argomenti parleremo ad un incontro con gli imprenditori.
1 – la congiuntura
Il rallentamento dell'economia – frutto per la parte “congiunturale” anche dell'azione del governo in carica, ma frutto di quanto non si è fatto negli ultimi decenni per la parte “strutturale” - spinge a rivedere le manovre in programma non solo per l'anno in corso, ma anche per quelli futuri.
Già, ma come? Il governo in carica soffre fin dalla nascita di un conflitto che trae origine dalla contrapposizione fra gli interessi del Settentrione (in breve: autonomia regionale, produzione, infrastrutture) e del Meridione (in breve: reddito di cittadinanza). Interessi che sarebbero (forse) componibili (solo) in presenza di una crescita economica significativa. La quale crescita significativa deve affrontare il nodo del nanismo delle imprese e del Meridione.
2 – il nanismo
In Italia, su sessanta milioni di abitanti solo 23 milioni lavorano. I disoccupati non sono poi molti – 3 milioni, mentre molti sono gli inattivi sia in età di lavoro – 13 milioni, sia in età non di lavoro – 20 milioni. Quelli che lavorano sono quasi tutti occupati nelle imprese con al massimo dieci dipendenti. Le imprese italiane di piccola dimensione hanno una produttività inferiore a quelle delle imprese tedesche e francesi della stessa classe, mentre quelle di dimensione maggiore hanno una produttività eguale o maggiore. Dunque il punto non è l'”italianità incapace di fare industria” e/o “l”euro che ci ha rovinati”.
I salari possono salire stabilmente – e quindi aiutare il finanziamento sia della spesa pubblica attraverso le imposte sia di quella pensionistica - solo se aumenta la scala delle imprese e quindi il valore aggiunto generato dalle stesse. Invece, si continua a pensare che la redistribuzione del reddito esistente sia un'opzione valida. Il reddito di cittadinanza rischia di alimentare gli assistiti cronici. La riforma delle pensioni non è strutturale, ma contingente. Il minor carico fiscale è finora a favore dell'economia polverizzata.
3 – il Meridione
Qual era il reddito per abitante della parte settentrionale e meridionale dello Stivale al momento della nascita dell’Italia come stato? Le stime – difficili da farsi per la modestia delle statistiche disponibili – variano da un minimo di «all’incirca lo stesso» fino a un massimo di un quarto in meno per la parte meridionale. Come che sia, oggi il reddito per abitante della parte meridionale è circa la metà. Questo divario si è formato dal 1880 al 1950. Dal secondo dopoguerra si è alternativamente chiuso e riaperto, quindi è rimasto intorno poco sopra la metà. Come mai il divario è intorno alla metà? Il tasso di occupazione in Meridione è inferiore (è pari al 64% di quello del Nord) e anche la produttività è inferiore (è pari al’82% di quella nel Nord). La combinazione (64% X 82%) di una minor occupazione (la popolazione in età da lavoro occupata è inferiore) e di una minor produttività (il prodotto per occupato è inferiore) spiega il divario (64% X 82% = 52%).
In astratto, le caratteristiche economiche di un’area arretrata come quella del Meridione sono: 1) un reddito per abitante basso; 2) una concentrazione della ricchezza elevata; 3) uno spreco di spesa pubblica; 4) un’evasione elevata. Queste caratteristiche sono riscontrabili nelle statistiche di tre regioni: la Campania, la Calabria e la Sicilia. Non decollando l’economia, resta l’uso di risorse pubbliche. Le risorse pubbliche sono investite anche per occupare persone. Le quali persone votano coloro che si occupano di trovare le risorse pubbliche. Essendo la Campania e la Sicilia molto popolose, eleggono un gran numero di deputati e senatori. Nessuno in Italia può di conseguenza vincere le elezioni senza il loro voto. Il loro potere di interdizione è all’origine della distorsione nell’uso delle risorse pubbliche.
Il Meridione ha mutato spesso volto. Meglio, ha avuto diversi volti che sono mutati. Un volto era quello di essere un mercato maggiore per le esportazioni delle imprese del Nord. Un altro era quello di fornire manodopera ai tempi della industrializzazione accelerata del Nord. Questi due primi volti del Secondo Dopoguerra hanno da tempo esaurito la propulsione. Il Nord esporta in massima misura fuori dai confini nazionali, e la manodopera non qualificata proveniente da altre aree non è più richiesta. Altro volto era bilanciare il pericolo social-comunista ai tempi della Guerra Fredda. Il Meridione votò, infatti, prima per la Monarchia e poi per le forze moderate. La Guerra Fredda non c'è più e il pericolo social-comunista non si vede dove oggi possa albergare. Volto finale – quest'ultimo esauritosi per effetto della guerra persa e quindi estintosi con la rinuncia ad essere la “più piccola delle grandi potenze” - era la funzione militare. Il Meridione popoloso serviva per fornire l'esercito di soldati, e per proiettarsi verso il mare nostrum. Queste erano le ragioni dell'interesse per così dire “materiale” del Nord a perseguire una politica di “alleanza” con il Meridione. Queste ragioni materiali non ci sono più.
Abbiamo alla fine un equilibrio economico povero in alcune regioni e un equilibrio politico costoso per quelli da cui si attingono le risorse.
4 – le soluzioni che non sono tali
Si dibatte su come uscire dalla combinazione di una economia stagnante combinata da un gran debito pubblico. Prevale l'idea che l'economia sia trainata dalla domanda (con l'offerta che segue la domanda, ma il nanismo e il Meridione hanno, invece, a che fare con l'offerta). Da qui il deficit che la spinga, magari con il finanziamento parziale con una propria moneta o un qualche suo surrogato del deficit medesimo come i mini-BOT. Per evitare un deficit eccessivo si pensa alle privatizzazioni e alla lotta all'evasione, delle soluzioni “sempre verdi”, ma poco efficaci. Ecco la disanima delle tre proposte.
4–1- la spesa pubblica in deficit
Si ha chi propone per portare sotto controllo il debito pubblico (il numeratore) di far crescere il PIL (il denominatore). Per ridurre il rapporto debito/PIL occorre quindi agire sul denominatore, ossia bisogna crescere di più e per crescere di più – sempre secondo alcuni - occorre fare più deficit. Si aumenta il deficit – ossia se si aumenta la domanda addizionale - aumenta il PIL. Quest'ultimo aumenta grazie ai moltiplicatori – ossia grazie al maggior reddito che sorge a seguire la spesa iniziale. Grazie dunque ai moltiplicatori il PIL sale, e sale più del debito che inizialmente si forma per farlo ripartire. Segue che, alla fine, il rapporto Debito/PIL scende.
Può però accadere, anche ammettendo i moltiplicatori siano maggiori di uno, ossia che l'economia cresca più della spesa iniziale, il che non è sempre vero, ossia che, grazie ad un deficit più elevato, aumenti immediatamente il PIL, ma non il suo tasso di crescita di medio periodo – tasso che dipende da altre variabili che possono essere diverse da quelle della semplice spesa iniziale. Intanto che il debito è diventato maggiore - e nell'attesa che la crescita dell'economia lo riduca come pero relativo – possono crescere gli interessi a parità di tassi o i tassi e quindi gli interessi possono riprendere a salire. La soluzione della spesa pubblica in deficit finisce per non funzionare.
4-2– le privatizzazioni
Si ha una difficoltà pratica ed un problema teorico. La prima ricorda che non si sono avuti dei casi di riduzione significativa del debito pubblico attraverso la cessione del patrimonio. La seconda sostiene che, se la cessione avviene al valore pieno dell'attività, allora venderla o tenerla nel bilancio dello stato non fa differenza. Il debito pubblico netto sarebbe, infatti, eguale al debito pubblico post vendita a valore pieno. Perciò la cessione del patrimonio ha senso da parte dello stato se avviene sopra il valore pieno - ma in questo caso ci rimettono i privati. Se, invece, avviene sotto il valore pieno, ci rimette lo stato. E perché mai quest'ultimo dovrebbe vedere sotto il valore pieno? Una risposta è quella che sostiene che i privati sono più efficienti dello stato nella gestione delle attività, e dunque che alla lunga lo stato incassa - grazie alla privatizzazione - più imposte di quante altrimenti incasserebbe. In proposito si possono citare dei casi a favore e contro senza giungere ad una conclusione.
4-3– la lotta all'evasione
L'Italia è uno dei paesi con la maggiore evasione. La stima è di un 20 per cento del PIL. Anche qui, immaginando che un terzo dell'evasione prenda la forma delle imposte, avremmo un sette per cento circa di maggiori introiti. Il deficit dello stato scomparirebbe e si potrebbero tagliare le imposte. E' un luogo comune del dibattito politico (“pagare tutti per pagare meno”).
Non è però così facile eliminare l'evasione. Intanto il 20% di evasione è una media fra la Lombardia dove si evade molto poco – un 10% circa, come in Germania – e la Calabria, dove si evade moltissimo – un 50% circa. Un'ulteriore raccolta fiscale frutto della “lotta all'evasione” sarebbe di dimensioni ridotte in Lombardia (una percentuale modesta del PIL di una regione ricca), e di buone dimensioni in Calabria (una percentuale altissima del PIL di una regione povera). Regioni povere ad evasione altissima sono anche la Sicilia e la Campagna. Bisogna poi vedere quanta parte dell'evasione non sia altro che un modo (illegale) di sostenere il reddito. Un po' come in Grecia le pensioni dei nonni aiutano i nipoti, in assenza di una rete di protezione sociale diffusa e offerta dallo stato. In conclusione, in Italia l'evasione fiscale e la Questione Meridionale si sovrappongono.
5 - quali vie d'uscita?
Non si può perciò escludere che - in presenza di una ulteriore caduta dei consensi del M5S e di una ulteriore ascesa della Lega a danno sia dell'alleato di governo sia della coalizione di Centro-destra - si possa andare verso le elezioni politiche anticipate. Un andamento siffatto potrebbe alimentare una spinta verso una doppia aggregazione – verso un nuovo “bipolarismo”: un Centro-destra a trazione Lega ed un Centro-sinistra a trazione M5S. Ossia un bipolarismo che vede i protagonisti del bipolarismo della Seconda Repubblica – il PD e FI - “risucchiati” dalle forze populiste ormai emerse ai loro lati.
Laddove, nel caso del nuovo Centro-destra, avremmo in campo economico una maggior attenzione alle necessità produttive a scapito di quelle distributive, ma entro una cornice in qualche misura “sovranista”. Laddove, nel caso del nuovo Centro-sinistra, il PD andrebbe alla ricerca della “costola di sinistra” presente in un M5S ormai indebolito per trovare un accordo che lo rimetta in gioco. Difficile che in questo secondo caso possa emergere in campo economico una maggior attenzione alle necessità produttive a scapito di quelle distributive, anche se si avrebbe una cornice meno “sovranista” di quella che si avrebbe nel primo caso.
Negli ultimi cento anni abbiamo avuto tre mutamenti in campo politico: nel 1922, nel 1948, nel 1994. Gli effetti dell'ingresso improvviso delle masse dopo la Prima Guerra nella vita dello stato prima, il nodo della ricostruzione ai tempi della Guerra Fredda che seguiva una guerra civile che, a sua volta, seguiva la Seconda Guerra poi, e, infine, la caduta, dopo la fine della Guerra Fredda, del sistema dei partiti che impediva l'alternanza delle forze politiche. Siamo nel terzo periodo, oppure ne sta sorgendo un quarto? E in ogni modo gli altri tre mutamenti seguivano un evento esterno di grande importanza.
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