Ha avuto una relativa eco in Italia la vicenda, ampiamente dibattuta in ambito statunitense, dell’atleta di MMA (arti marziali miste) Bryce Mitchell, resosi protagonista, nel corso di un intervento ad un podcast, di alcune dichiarazioni a difesa di Adolf Hitler, il quale, a suo dire, non sarebbe stato altro che “un bravo ragazzo che ha combattuto per il suo Paese” (a good guy who fought for his Country). L’atleta ha aggiunto che ci sarebbe andato volentieri a pescare insieme (…) e che la sua politica di “purificazione” della società dagli ebrei “rapaci” (“greedy”) e da chi voleva rendere i bambini gay (“gay out the kids”) poteva dirsi ben comprensibile[1].
A fronte dell’immediato quanto ovvio sdegno dell’opinione pubblica americana, non si è fatta attendere la reazione dell’organizzazione sportiva nella quale l’atleta militava (e tuttora milita), ovvero della UFC (Ultimate Fighting Championship).
L’influente CEO della compagnia, Mr. Dana White, amico personale e pubblico sostenitore del Presidente Donald Trump, ha preso immediatamente le distanze dalle affermazioni di Mitchell, giudicate gravissime, deprecabili e “frutto di un’ignoranza cui l’attuale mondo social consente di dare inopinatamente voce”[2].
Al contempo, però, White ha rilevato che, essendo protette dal free speech, le opinioni dell’atleta non possono essere censurate da un’organizzazione privata come la UFC, che non può pretendere di imporre il proprio pensiero agli atleti, né tanto meno di educare questi ultimi[3].
Per di più, ha chiosato il CEO White, il bello dello sport in questione, ossia delle arti marziali miste, è che coloro che provino un astio nei confronti di Mitchell potranno vieppiù godere nell’assistere alla sua “punizione” da parte degli avversari nell’ottagono.
Il caso Mitchell, indubbiamente spinoso a livello politico (considerati i sin troppo evidenti riferimenti dell’atleta allo scenario attuale, mal celati dietro il rinvio al contesto sociale del I Dopoguerra tedesco), stimola in un giurista un duplice ordine di interrogativi.
Anche senza scomodare l’annosa questione della (presunta?) neutralità dello sport (visto pure che le affermazioni di Mitchell sono state comunque rese al di fuori del perimetro della contesa sportiva), la vicenda porta innanzitutto a riflettere attorno ai confini della libertà di espressione.
In questo senso, la strenua difesa di Dana White – non come singolo, ma quale responsabile della UFC – del free speech dell’atleta appare, più che liberale, libertaria e, nel suo (apparente?) astensionismo, sicuramente lontana dai valori del costituzionalismo moderno, che non tollera l’idea di diritti assoluti e, per così dire, “tiranni”, quand’anche (o, meglio, proprio in quanto) essi costituisca[o]no il fondamento della società democratica, come, appunto, la libertà di espressione. Quest’ultima, infatti, è destinata a trovare necessariamente un contemperamento nei diritti fondamentali (a partire dall’onore e dalla reputazione) di altri soggetti, vuoi persone fisiche, vuoi persone giuridiche. Altrimenti, banalmente, non potrebbe trovare cittadinanza, all’interno dell’ordinamento giuridico, il reato di diffamazione, per non parlare dei crimini d’odio. Ma, anche in ambito lavoristico, sarebbe invero complesso pretendere di invocare il free speech al fine di sottrarsi alla responsabilità derivante dalla violazione del divieto di rivelare i segreti aziendali, o, se si pensa a certi ruoli, i segreti di Stato. In definitiva, va escluso che il “free speech” possa fungere da passe-partout per forma di “espressione” dell’individuo.
Abbracciando un punto di vista vicino a quello del CEO White, si potrebbe forse replicare che Bryce Mitchell si è limitato a manifestare una propria convinzione circa un personaggio storico, parlando a titolo strettamente personale e senza dunque impegnare in alcun modo la UFC, la quale, non essendo un’impresa di tendenza, non potrebbe legittimamente pretendere una piena condivisione dei propri valori da parte dei suoi numerosi atleti e atlete.
Proprio per superare tale eccezione, la tematica dovrebbe essere allora meglio inquadrata sul piano privatistico e contrattuale.
Ebbene, mette innanzitutto conto rilevare che le dichiarazioni dell’atleta, rese come detto nel corso di un podcast e non in occasione di una manifestazione sportiva, dovrebbero essere inquadrate, secondo le categorie giuridiche nostrane, nel novero delle condotte extralavorative, le quali possono venire in rilievo, giustificando nell’eventualità anche una reazione di natura disciplinare, solo nel momento in cui esse vengano ad incidere sulla capacità del lavoratore di svolgere correttamente la propria prestazione.
Al riguardo, è sin troppo agevole notare come la difesa di una politica di “purezza della razza” finisca inevitabilmente per “offendere” trasversalmente, e non soltanto indignare, le colleghe e i colleghi del fighter, in ragione, a seconda, del rispettivo credo, orientamento sessuale, origine o provenienza.
Non è quindi possibile escludere che un potenziale avversario si rifiuti di competere con chi si è reso protagonista di affermazioni inaccettabili ed espressive di valori in totale antitesi con i propri, rendendo per l’organizzazione complessa la pianificazione di un incontro, con ovvie conseguenze pregiudizievoli per il business.
Al contrario, però, potrebbe accadere che il moto di indignazione suscitato dalle dichiarazioni di Mitchell possa indurre altri lottatori a candidarsi quali avversari per impartire una dura punizione all’atleta, così realizzando la “profezia”, ad alto tasso di monetizzazione, del Presidente White. Del resto, l’evento più visto (e, di conseguenza, più lucroso) della storia UFC è stato l’incontro nel corso del quale l’atleta daghestano Khabib Nurmagomedov ha risposto “sul campo” (e, a voce, con il celebre “let’s talk now” proferito durante una furiosa serie di attacchi dall’alto) agli insulti indirizzati, nel corso di una movimentata conferenza stampa, nei confronti della sua religione e della sua famiglia da parte dello sfidante irlandese Conor McGregor.
Senonché, bisognerebbe tenere pur sempre a mente che vi è una differenza fondamentale tra una disciplina sportiva marziale e un’aggressione fisica privata. Se la seconda è ovviamente vietata (e penalmente sanzionata), la prima può essere lecitamente praticata, a livello dilettantistico o agonistico, solo a fronte di precisi e puntuali vincoli, dei quali spetta a chi organizza gli eventi garantire il rispetto.
Per quanto l’obbligo di protezione che incombe in generale sul datore di lavoro debba essere in qualche modo adattato al cospetto di uno sport da combattimento (o, come si suole di dire, di un “hurt business”)[4], non si può negare che la UFC sia comunque tenuta ad adoperarsi affinché chi prende parte agli incontri serbi un contegno da avversario e non da nemico nei riguardi dell’atleta contrapposto: se non si può impedire in assoluto che la tenzone in qualche modo divenga “personale”, la garanzia di un minimo etico comune dovrebbe porre un freno alla tentazione di accanirsi su un avversario sportivamente sconfitto, magari inerme a seguito di un colpo da K.O. e perciò esposto ai danni permanenti che l’organizzazione sarebbe tenuta, in ragione della sua posizione contrattuale, a prevenire (e non già ad auspicare, pure in chiave…“catartica”).
Si ricorderà che qualche anno fa la National Basketball Association (NBA) ha costretto il proprietario della squadra dei Los Angeles Clippers, Donald T. Sterling, a cedere il proprio pacchetto di maggioranza a seguito della diffusione di una conversazione privata con l’allora compagna, cui egli aveva intimato di non frequentare persone di colore. Come riconosciuto dalle Corti della California, in una lega aperta e plurale come la NBA, le dichiarazioni de quibus avevano minato ogni possibilità di Sterling di porsi quale credibile interlocutore dei giocatori, degli altri proprietari e, in generale, degli stakeholders dell’organizzazione, senza che venisse in alcun modo tenuto conto dell’eventuale effetto motivazionale delle affermazioni negli avversari dei Clippers e, soprattutto, con buona pace del suo diritto al “free speech” e, in quel caso, dello stesso diritto di proprietà.
[1] Così Bryce Mitchell il 30 gennaio 2025: “Here’s what I say about [Elon Musk] heiling Hitler, heiling the Nazis: I really don’t think that he was, because I honestly think that Hitler was a good guy based upon my own research, not my public education indoctrination…he was a guy I’d go fishing with…He fought for his country…He wanted to purify it by kicking the greedy Jews out, that were destroying his country and turning them all into gays. They were gaying out the kids. They were queering out the women. They were queering out the dudes. Do you know where the first tranny surgery ever was? Happened to be in Germany before Hitler took over”.
Invero, l’atleta ha compiuto una parziale retromarcia qualche giorno dopo, scusandosi per essere stato “insensibile” e precisando di non essere un nazista.
[2] Così Dana White il 30 gennaio 2025: “First of all, when you talk about Hitler, he was responsible for the death of 6 million Jews and it was his intent to completely eliminate the Jewish people. Hitler is one of the most disgusting and evil human beings to ever walk the Earth, and anyone that even tries to take an opposing position is a moron… That’s the problem with the internet and social media. You provide a platform to a lot of dumb and ignorant people”.
[3] Lo stesso Dana White, nel giugno del 2023, si era espresso in questo modo rispetto ad un fighter dichiaratosi fermamente contrario al lavoro delle donne: “I don’t f. tell any other human being what to say, what to think. There are no leashes on anyone. It’s ridiculous to say that I give somebody a leash. Free Speech, brother. there are certain fighters, male and female, who have their own religious and political beliefs or whatever, and we don’t muzzle any of them, either”. In un altro caso, però, risalente al 2011, un fighter era stato tagliato per un tweet in cui si prendeva gioco delle donne vittime di stupro.
[4] In realtà, gli atleti UFC sono inquadrati come lavoratori autonomi e non dipendenti dell’organizzazione: cfr., per i riferimenti, M. Biasi, Universalismo vs. selettività nel diritto del lavoro sportivo: Italia e Stati Uniti a confronto, in Var. Temi Dir. Lav., 2024, 2, 387 ss.
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