La visita ufficiale di Donald Trump in Arabia Saudita, proprio mentre si svolgevano le elezioni in Iran, contrasta con la politica di apertura e dialogo del neo presidente Rouhani

Venerdì 19 maggio 2017 si sono tenute in Iran le elezioni presidenziali. Hassan Rouhani è stato riconfermato con una maggioranza netta (23,5 milioni di voti su 41 per il 57%) per il suo secondo e ultimo mandato quadriennale.
Dato il ruolo del paese sia sulla scena regionale che internazionale, queste elezioni (Figura 1) hanno ripercussioni rilevanti che suggeriscono alcune riflessioni. Dinamiche, ad una prima analisi meramente interne, hanno invece importanti legami con quel che avviene al di fuori dei confini iraniani (Figura 2). E’ bene tenere presente come il regime iraniano combini elementi democratici (elezioni competitive e per la maggior parte regolari sia a livello presidenziale che parlamentare) con elementi autoritari (selezione delle candidature a tali elezioni, cariche politiche chiave attribuite in base a nomine e grosse lacune in termini di libertà civili e politiche).

Questo è il risultato di una complessa architettura istituzionale che affonda le sue radici, a livello ideologico, nel manifesto di Ruollah Khomeini La Tutela dei Giureconsulti (Figura 3). In esso, il clero sciita veniva indicato come il garante della natura Islamica della repubblica iraniana, configurando un sistema fondamentalmente teocratico. Allo stesso tempo, le istanze di altri attori – nazionalisti, liberali, comunisti, etc...- ai tempi della rivoluzione del 1978-79 hanno fatto sì che appunto elementi democratici fossero presenti nella costituzione, incluse elezioni a scadenza regolare.
Queste ultime elezioni hanno visto confrontarsi due principali candidati, il già mezionato presidente uscente Hassan Rouhani e il conservatore Ibrahim Raisi (al quale sono andati il 38% dei voti, con altri candidati minori a spartirsi il restante 5% - Figura 4). Entrambi appartenenti al clero sciita, hanno già ricoperto funzioni importanti (membri per esempio dell’Assemblea degli Esperti; Rouhani anche del Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale) rappresentano comunque schieramenti alquanto diversi: se infatti Rouhani è spesso descritto come moderato e riformista, Raisi è invece un ultra conservatore il cui nome, prima delle elezioni, era stato accostato a quello di Ali Khamenei – la Guida della repubblica Islamica, la più alta carica politica nel paese – come suo possibile successore.


In periodo di campagna elettorale, due temi hanno dominato la scena: la situazione economica e la politica estera. Come e più di altri paesi, in Iran questi due aspetti tendono ad essere particolarmente legati. Rouhani fu eletto quattro anni su di una piattaforma di apertura verso USA ed Europa per poter trovare una soluzione condivisa all’impasse sul programma nucleare iraniano. Un accordo avrebbe infatti permesso all’Iran di vedere eliminate pesanti sanzioni economiche legate a tale programma. Si sarebbe così dato nuovo impulso all’economia, fortemente penalizzata specie per quel che riguardava le esportazioni petrolifere (Figura 5) e l’isolamento dai mercati finanziari. Il Joint Comprehensive Plan Of Action (JCPOA) del 2015 rappresentò appunto tale accordo tra l’Iran e il gruppo dei ‘5+1’ (USA, Russia, Francia, Gran Bretagna, Cina e Germania).
Rouhani ha rivendicato in campagna elettorale gli immediati effetti positivi che la rimozione di parte delle sanzioni avrebbe comportato: in primo luogo, la riduzione drastica dell’inflazione e una ripresa sostenuta della crescita economica (Figura 6). La politica estera, e in particolare il JCPOA, è stata presentata come uno dei cardini di questa ripresa. Dal canto suo, Raisi ha presentato una linea più populista, lamentando come, ammesso e non concesso che di ripresa economica si possa parlare, questa non abbia toccato i ceti meno abbienti. Di più: classi già agiate si sono arricchite anche a scapito di quelle più deboli. L’apertura politica e quindi economica voluta da Rouhani non solo non ha portato frutti, ma ha compresso, sosteneva Raisi, la sovranità nazionale bloccando lo sviluppo del programma nucleare (che il regime ha sempre dichiarato essere solo per fini civili e non militari, cosa su cui è legittimo nutrire dubbi). Raisi ha inoltre proposto la reintroduzione di trasferimenti netti ai più poveri, una misura già adottata dal governo Ahmadinejad con effetti deleteri per le finanze pubbliche.
Ad ogni modo, l’elettorato – in maniera preponderante specie nei grandi centri urbani – ha scelto come si è visto Rouhani, e con lui la politica di apertura e dialogo. Se è vero che gli effetti della rimozione delle sanzioni, per quanto presenti, siano per ora rimasti al di sotto delle aspettative, per la maggior parte dell’elettorato non sembra che un cambio di direzione in senso isolazionista possa portare particolari e maggiori benefici. A questo fa da contraltare, appunto, l’atteggiamento nazional-populista degli ambienti più conservatori, per i quali uno stato di assedio politico-economico non dà altro che elementi per sostenere la necessità di una politica estera in aperta sfida all’occidente e ai rivali regionali.

In questo quadro, la visita ufficiale del presidente USA Donald Trump in Arabia Saudita proprio mentre si svolgevano le elezioni in Iran non ha fatto altro che mettere ancor più in rilievo questi temi. Il regime saudita teme e contrasta con forza l’influenza iraniana nella regione. Sebbene questa rivalità contenga anche venature religiose (una riprosizione di uno scontro tra sunniti e sciiti), si tratta più propriamente di un confronto prima di tutto strategico e militare ovvero politico. L’accordo tra Washington e Riad per la vendita al paese arabo di dotazioni e rifornimenti militari per circa 110 miliardi di dollari è un messaggio chiaro a Tehran: il nuovo corso della politica estera americana non prevede una prosecuzione della strada inaugurata da Obama, quanto una sua abiura. Per di più, rivolgendosi ai capi di stato di oltre 50 paesi a maggioranza musulmana presenti a Riad, Trump ha ribadito come la minaccia terroristica sia una priorità assoluta per la sua amminstrazione. In questo senso, il contenimento di ideologie che fomentano il terrorismo di matrice islamista e di paesi che sponsorizzano gruppi terroristi sono due politiche strettamente connesse: l’Iran, sostiene Trump, è colpevole su entrambi i fronti.
Due considerazioni emergono. Per prima cosa, è difficile non notare una certa incosistenza di fondo in tale posizione. L’Iran è un regime di chiara matrice autoritaria e illiberale; sostiene un regime ancor più repressivo, fornendo un aiuto fondamentale a Bashar al-Assad in Siria; ed è impegnato in proxy-wars sia appunto in Siria che in Yemen contro il rivale saudita. Tuttavia, il supporto a livello ideologico e logistico a gruppi terroristi transnazionali di matrice islamista (Hezbollah potrebbe essere l’unico esempio, ma non è riconosciuto come gruppo terrorista da buona parte della comunità internazionale, UE compresa) non gli è attribuibile. Ancor più importante – e stridente – diviene il contrasto proprio con il regno saudita, regime dove non esistono nemmeno le pur limitate pratiche democratiche iraniane e dove elezioni di portata paragonabile non sono nemmeno immaginabili (in Iran, giova ricordarlo, ha votato il 73% degli aventi diritto). E come qualsiasi esperto di movimenti islamisti potrebbe ricordare, l’ideologia wahhabita, una corrente minoritaria dell’Islam sunnita su cui si fonda il regime di Riad, è invece da ritenersi come strettamente imparentata al Salafismo militante di gruppi come Al-Qaeda, ISIS e Ahrar ash-Sham, solo per restare in Medio Oriente. In altre parole, se vi è un problema a livello ideologico nel proliferare di correnti islamiste violente, è da cercarsi più a Riad che a Tehran, nonostante le indicazioni americane.

In secondo luogo e alla luce di quanto detto, l’apertura della maggioranza dell’elettorato iraniano verso l’occidente riceve così una doccia fredda da parte americana. In politica internazionale, atteggiamenti e messaggi possono configurarsi anche come profezie che si auto-avverano. Trattare l’Iran come il primo fomentatore del terrorismo Islamista globale non solo è infondato; ma rischia anche di far sì che le fazioni moderate e riformiste nel paese si vedano accusate da parte dei conservatori di debolezza nel confronto con l’alleanza saudita-americana, indicando così nella sfida e nell’intransigenza la miglior strada percorribile. Il che renderebbe un compromesso sulle guerre in Siria e Yemen, sullo scenario iracheno e, più in là, sulla questione Israelo-Palestinese ancor più remoto, esasperando una situazione già oltremodo drammatica.
Concludendo, è notizia del 25 maggio che la commissione esteri del senato USA ha votato per un inasprimento delle sanzioni contro l’Iran non legate al programma nucleare ma riguardanti invece test di missili balistici, supporto al terrorismo e violazione di diritti umani. Su quest’ultimo punto, anche l’UE ha esteso fino ad aprile 2018 le proprie sanzioni. A discapito della sua retorica moderata e riformista, Rouhani non ha realmente potuto o voluto porre rimedio a tali sistematiche e diffuse violazioni. Come alcuni analisti han fatto notare, le istituzioni in Iran sembrano sempre essere più importanti delle personalità che mano a mano le occupano. In fondo, l’enorme successo in termini di partecipazione elettorale non può che giovare all’ayatollah Khamenei, al di là del fatto che il candiadato a lui più vicino abbia perso: decisivo è poter sbandierare la legittimità di cui il sistema teocratico sembra ancor godere, a quasi quarant’anni dalla sua fondazione.