Per quanto la via dell’indipendenza catalana sia lastricata di ostacoli e resti di difficilissima realizzazione, sanare le fratture con Madrid e ricomporre i pezzi del puzzle richiederà moltissimo tempo
L’esito delle elezioni catalane
La Spagna vive oggi il momento più difficile e delicato della sua storia dalla fine della dittatura franchista. Le elezioni regionali svoltesi in Catalogna lo scorso 21 dicembre 2017 per votare i nuovi rappresentanti della Generalitat (l’insieme di tutti gli organi che compongono il sistema amministrativo-istituzionale catalano) hanno sancito la vittoria del fronte indipendentista locale, proiettando di fatto il Paese in una situazione di stallo e di crisi politica ed istituzionale tra Madrid e Barcellona che non sarà facilmente risolvibile nel giro di poco tempo e il cui prezzo rischia di essere molto alto.
Nonostante il partito di centro-destra Ciudadanos, guidato in Catalogna dalla giovane leader Inés Arrimadas, sia risultato il primo con il 25.4% dei voti e abbia conquistato il numero di seggi più alto (37), il blocco indipendentista formato da Junts per Catalunya (partito dell’ex Presidente catalano Carles Puigdemont), da Esquerra Republicana (guidata dall’ex Vice Presidente attualmente in carcere, Oriol Junqueras) e da Candidatura d'Unitat Popular (partito di estrema sinistra indipendentista), ha conquistato 70 seggi ottenendo la maggioranza sui 135 seggi disponibili e guadagnandosi quindi la possibilità di formare un Governo (Figura 1). Nello specifico, JuntsxCat si è aggiudicata 34 seggi, Esquerra Republicana ne ha conquistati 32 mentre 4 sono stati assegnati a CUP: complessivamente il fronte indipendentista ha raggiunto il 47.5% dei voti disponibili.
Sconfitta epocale per il Partito Popolare di Mariano Rajoy, premier spagnolo dal 2011 e grande rivale di Puigdemont, che ha ottenuto il minimo storico in Catalogna e che potrà contare solo su 3 deputati; discreti risultati invece per il Partito Socialista e per En Comù, costola catalana di Podemos, che ottengono rispettivamente 17 e 8 seggi ma che risultano ininfluenti per la formazione di un eventuale Governo di coalizione in chiave anti-indipendentista (sebbene sia da specificare come Podemos, pur essendo contro la secessione, sia favorevole allo svolgimento di un referendum per sancire i destini della Catalogna).
Le tappe che hanno portato alla frattura tra Madrid e Barcellona e lo scenario attuale
Il primo ottobre 2017 ha avuto luogo in Catalogna uno dei più grossi terremoti politici ed istituzionali mai accaduti in tutta la Spagna: si è svolto infatti il referendum sull’indipendenza della stessa regione, convocato dall’ex Presidente della Generalitat Puigdemont, e bollato come illegale ed incostituzionale da Madrid e dalla magistratura spagnola, che per ovvie ragioni si sono sempre opposti alle istanze separatiste catalane. Quella data ha rappresentato una pagina decisamente buia per la Spagna post-franchista: Madrid ha voluto bloccare ad ogni costo il referendum e si è assistito a scene di violenza, occupazione dei seggi e cariche da parte della Guardia Civil (la polizia nazionale) nei confronti degli elettori, tensioni con i cosiddetti Mossos d’Esquadra (la polizia catalana), con un bilancio finale di circa 800 feriti. Nonostante il tentativo di Rajoy, il referendum, che si è svolto comunque in condizioni estremamente particolari e di dubbia legalità, ha visto la vittoria del fronte indipendentista che ha ottenuto una maggioranza schiacciante, pari al 90% dei voti (Figura 2). Da qui è iniziato un lungo braccio di ferro tra le due parti: il Parlamento catalano ha approvato la dichiarazione di indipendenza in maniera unilaterale lanciando di fatto la sfida a Madrid e la risposta del Governo centrale, dopo una serie di schermaglie tattiche tra Rajoy e Puigdemont, non si è fatta attendere: a seguito della dichiarazione di indipendenza, Madrid ha applicato per la prima volta nella sua storia post-franchista, l’articolo 155 della Costituzione spagnola, quello che dà la possibilità al Governo centrale di obbligare una Comunità autonoma a rispettare determinate disposizioni costituzionali o di legge e di controllarne direttamente le autorità qualora essa le violi. Rajoy ha quindi sciolto il Parlamento, rimosso Puigdemont e i suoi ministri dai loro incarichi e convocato elezioni anticipate proprio in data 21 dicembre: per la prima volta in Catalogna, non è stato il Presidente della Generalitat a convocare le elezioni ma il Governo centrale. Ma non è finita qui, perché in data 30 ottobre la procura generale spagnola ha fatto arrestare alcuni dei leader politici catalani, responsabili della dichiarazione di indipendenza: tra questi, anche Oriol Junqueras, attualmente in carcere e accusato di ribellione, sedizione e malversazione; Carles Puigdemont, su cui pesa ancora un mandato di arresto e che rischia fino a 30 anni di carcere, si trova invece ancora in Belgio, Paese in cui è fuggito a seguito della decisione della procura.
Il panorama attuale è delicatissimo ed incandescente: se il fronte indipendentista ha i numeri per formare il nuovo Governo, Madrid è pronta a impedire tale percorso se non sarà rinnegata l’indipendenza. Puigdemont ha chiesto apertamente un incontro con Rajoy e si è appellato al Governo centrale al fine di “riconoscere i risultati elettorali del 21 dicembre e iniziare a negoziare politicamente con il Governo legittimo della Catalogna” ma Rajoy ha prontamente risposto che parlerà solo con il prossimo Presidente della Generalitat.
La prima sessione del nuovo Parlamento catalano si è tenuta il 17 gennaio 2018 ed è stato eletto presidente Roger Torrent (di ERC) nella seconda votazione con maggioranza semplice. La seconda sessione, prevista per il 30 gennaio, è stata rinviata da Torrent, il quale, dopo la diffida della Corte costituzionale spagnola, ha preferito prorogare a data da destinarsi l'eventuale investitura di Carles Puigdemont a capo del governo. Di fatto Torrent ha scelto una posizione intermedia, evitando di nominare Puigdemont Presidente della Generalitat ed affermando che non presenterà nessun altro candidato e che non accetterà ingerenze esterne. Il braccio di ferro dunque continua.
Gli attori in gioco e il ruolo della Catalogna nell’economia spagnola
In un contesto così complesso, gli errori si contano da una parte e dall’altra. Da un lato l’eccessiva intransigenza, tale da rasentare l’ottusità, di Rajoy, che non ha riconosciuto la vittoria elettorale del blocco indipendentista ed è riuscito a far riemergere vecchi fantasmi e vecchie ferite del franchismo che nel Paese non sono ancora state completamente rimarginate. Il Governo centrale, supportato dalla Corte Costituzionale, si è sempre trincerato dietro l’illegalità del referendum e non ha mai dato segnali di minima apertura nei confronti delle istanze catalane: per cui, se è vero che la Catalogna non ha mai avuto così tanta autonomia come oggi, è altrettanto vero che l’uso del pugno di ferro ha avuto solo l’effetto di esacerbare gli animi e creare ulteriori fratture. La vittoria del blocco indipendentista ne è la naturale riprova.
Dall’altro lato, la dichiarazione di indipendenza, che alla prova dei fatti si è rivelata un vero fallimento, ha prodotto effetti molto negativi per l’economia catalana: nella settimana successiva al referendum, Caixa Bank e Banco Sabadell, due tra i principali istituti di credito locali, hanno trasferito la propria sede fuori dalla Catalogna, scatenando un effetto domino che ha coinvolto più di 2.500 imprese (Figura 3). I leader catalani, che hanno sempre accusato Madrid di ricevere meno, da un punto di vista fiscale, rispetto a quanto sono in grado di dare (lo slogan “España nos roba” rappresenta un grande cavallo di battaglia) devono fare estrema attenzione: la Catalogna, con una popolazione di 7.6 milioni di abitanti e un PIL pari al 20% dell’economia spagnola (Figura 4 e Figura 5), rappresenta una zona fondamentale per l’intero Paese (Figura 6 e Figura 7) ma le ripercussioni a lungo termine, in ottica di indipendenza, potrebbero essere ancora più nefaste per la regione.
Da evidenziare inoltre la posizione dell’Unione Europea: per quanto Puigdemont sia intenzionato a portare la questione all’interno dei tavoli negoziali di Bruxelles, quest’ultima non vede certamente di buon occhio la creazione di nuovo Stato nazionale all’interno di un territorio già minato da divisioni e nuovi estremismi ed ha più volte affermato che la questione catalana è un affare interno spagnolo. Bruxelles, inoltre, ha già avvertito Barcellona che un’eventuale secessione non avrebbe altro effetto che proiettare la Catalogna al di fuori dei confini UE e dal mercato unico (Figura 8): il leader catalano dovrebbe quindi calcolare e comprendere al meglio quali possano essere i pericoli reali derivanti dalla creazione di un eventuale nuovo Stato nazionale, che di fatto porterebbe la Catalogna in un territorio inesplorato e dalle mille insidie, esattamente come per il Regno Unito.
Il complicato contesto catalano
La Catalogna nel corso della sua storia (così come i Paesi Baschi e la Galizia se vogliamo allargare il discorso a tutto il territorio spagnolo) ha sempre avuto un attaccamento fortissimo alle proprie identità, alle proprie tradizioni, alla propria lingua, sinonimo di prestigio sociale, rango ed orgoglio nazionale, e non è certamente la prima volta che la regione si schiera apertamente contro Madrid alla ricerca della propria indipendenza: la fine della dittatura del Caudillo Francisco Franco, avvenuta nel 1975, che ha soppresso in tutti i modi non solo l’autonomia ma anche la lingua catalana, ha di fatto scoperchiato un vaso di Pandora le cui lunghe ombre si sono allungate fino ai nostri giorni; la crisi economica dell’ultimo decennio, che ha colpito duramente la Spagna, ha riacceso prepotentemente gli animi dei catalani indipendentisti, stanchi di dover trainare l’economia nazionale. Tuttavia, c’è anche un altro importante aspetto da considerare: la Catalogna è stata ed è tuttora terra di immigrazione e, di conseguenza, non tutti i suoi abitanti sentono lo stesso afflato nazionalista (discorso valido anche per molti nativi catalani). Attualmente, infatti, solo la metà della popolazione che vive nell’area, punto percentuale in più punto percentuale in meno, si considera favorevole ad una separazione dalla Spagna.
Prospettive future
Il futuro appare tutt’altro che chiaro e minato da molte incognite. Probabilmente i leader vincitori dell’ultima tornata elettorale abbandoneranno almeno per il momento la strada unilaterale dell’indipendenza, attuando una strategia più di lungo termine che passi attraverso una legislatura di transizione volta a rafforzare l’autonomia e conquistare nuovi consensi, con l’obiettivo di separarsi da Madrid in un futuro remoto. Ripercorrere la stessa strategia, ovvero spingere di nuovo verso la secessione, avrebbe lo stesso esito, ovvero si tradurrebbe in nuovi arresti e si abbatterebbe di nuovo contro il muro dell’articolo 155. In caso di strategia più soft, risulterà però complicato fare i conti con i 4 deputati del CUP, il partito di sinistra anti-capitalista più oltranzista in merito, i cui voti sono fondamentali per la maggioranza, così come risulterà complicato far digerire agli elettori indipendentisti una via costituzionale. Un altro scenario potrebbe prevedere un accordo politico con Podemos, partito della sindaca di Barcellona, Ada Colau: in caso di rinuncia alla secessione unilaterale, si potrebbe negoziare con quest’ultimo partito la richiesta di un referendum di autodeterminazione, ma per il quale sarebbe necessaria una modifica della costituzione.
Da non sottovalutare inoltre il ruolo delle più abbienti classi borghesi catalane, che hanno storicamente avuto un peso molto importante nella formazione del nazionalismo catalano (ma che tuttavia non ebbero problemi a schierarsi con Franco nel periodo della Guerra Civil, a differenza della popolazione): favorevoli ad una Catalogna indipendente, potrebbero facilmente cambiare opinione qualora tale percorso dovesse confliggere con i loro interessi economici.
Quello che appare indubbio è che per quanto la via dell’indipendenza sia lastricata di ostacoli e resti di difficilissima realizzazione, sanare le fratture con Madrid e ricomporre i pezzi del puzzle catalano richiederà moltissimo tempo: il rischio è che Barcellona si avviti in una sorta di delirio identitario (motivato anche da ragioni economiche, è opportuno non dimenticarlo) che dovrà essere eventualmente gestito con ragionevolezza e buon senso. La crisi di questi mesi ha aperto un solco in un Paese in cui lo Statuto delle Autonomie ha finora funzionato, ma che probabilmente ha bisogno di essere riformato per non dover vedere compromessa la propria unità territoriale.
In un mondo sempre più globalizzato e interconnesso, ma in cui riaffiorano con prepotenza venti separatisti ed identitari, la Catalogna rappresenta solo la punta dell’iceberg del disfacimento del concetto di Stato-Nazione, che potrebbe avvenire in futuro, per lo meno nel modo in cui lo abbiamo inteso fino ad oggi (Figura 9).
Ciò vale in particolar modo per l’Unione Europea, criticata da tutti ma in un modo o nell’altro sempre più punto nevralgico attorno a cui ruotano gli interessi e le esigenze economiche e commerciali europee: perché Barcellona deve fare riferimento a Madrid quando può avere direttamente Bruxelles come interlocutore? Il ragionamento di molte regioni che vogliono diventare indipendenti consiste nel fatto che l’appartenenza all’UE offre una serie di vantaggi che rendono meno traumatica la prospettiva di una secessione dallo Stato nazionale.
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