Se si vuole evitare il ritorno ad un'Europa delle piccole patrie, l'Unione deve trovare un proprio modello di funzionamento che tenga conto delle peculiarità di tutti i Paesi membri e delle priorità dei suoi cittadini.

Nel difficile e delicato periodo che sta attraversando l'Unione Europea, vi è un Paese il cui peso specifico risulta di gran lunga superiore a quello degli altri membri. Stiamo parlando della Germania.
Benchè le decisioni all'interno del Consiglio dell'Unione Europea e delle altre istituzioni dell'Unione siano prese a maggioranza, appare tuttavia impossibile negare il ruolo che il Governo tedesco è riuscito a ritagliarsi all'interno di questi processi decisionali: la Cancelliera Angela Merkel viene ormai indicata da più parti come la leader de facto dell'UE e la sua influenza è bilanciata solo parzialmente dall'operato del Governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi. L'economia tedesca (Figura 1 e Figura 2) si configura oggi come la più grande dell'Unione: il Paese, terzo esportatore al mondo (Figura 3), vanta un enorme surplus della bilancia commerciale ed è riuscito a superare senza troppi scossoni la crisi, grazie soprattutto alla solidità finanziaria raggiunta attraverso le incisive riforme del welfare (volte a contenere la spesa pubblica) e del mercato del lavoro (volte a ridurne le rigidità e ad aumentarne la produttività), attuate dal governo Schroeder tra il 2003 ed il 2005.

La Germania leader dell'Europa è però costretta ad affrontare una serie di problemi tra cui emblematico è il prolungato braccio di ferro tra Berlino e Atene. La Grecia vive una grave crisi di liquidità che, nello scorso mese di aprile, ha indotto il Governo guidato da Alexis Tsipras a requisire le disponibilità economiche degli enti pubblici, al fine di trovare i fondi utili per rimborsare 750 milioni di Euro al Fondo Monetario Internazionale. La Germania pretende invece dal Paese ellenico una serie di riforme ispirate agli stessi principi sopra menzionati, ma ben più dure nei contenuti, per sbloccare la nuova tranche di prestiti di cui Atene ha bisogno per far fronte ai suoi impegni. Agli occhi di molti analisti internazionali, la cosiddetta "Grexit" (ovvero l'uscita della Grecia dall'unione monetaria) non appare ormai soltanto una remota possibilità: recentemente, anche Christine Lagarde, direttore generale del FMI, si è espressa in questi termini in un'intervista al quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine.


Analizzando la situazione dal versante greco, non si può negare come le trattative siano state ostacolate anche dall'atteggiamento sfrontato e professorale del combattivo ministro delle finanze Yanis Varoufakis, il quale è riuscito nell'impresa di alienarsi il sostegno degli altri paesi dell'Europa meridionale, che pure avrebbero dovuto rivestire il ruolo di naturali alleati. Più pragmatico si è rivelato il Primo Ministro Tsipras che, affiancando un team di negoziatori a Varoufakis. ha contribuito a creare un clima più disteso nelle riunioni dell'Eurogruppo.
Nonostante il buon senso di Tsipras, la situazione resta critica: senza un prestito ponte sembra difficile che la Grecia possa riuscire a onorare le prossime scadenze, dal momento che Atene, solo nel mese di giugno, necessita di circa 7 miliardi di Euro per il pagamento di stipendi e pensioni e per far fronte ai rimborsi del debito (Figura 4).
In cambio di nuovi prestiti, i creditori (ribattezzatisi Brussels Group) chiedono l'attuazione di riforme strutturali, interventi sul sistema pensionistico e sul mercato del lavoro, riduzione della spesa pubblica e rilancio delle privatizzazioni: si tratta di misure che sono in contrasto con il programma elettorale proposto da Syriza, tanto è vero che Atene e Bruxelles non sono riuscite a trovare un accordo definitivo in merito. Il governo Tsipras, in caso di rottura toyale delle trattative, potrebbe addirittura considerare la possibilità di indire un referendum per stabilire se accettare o meno le durissime condizioni imposte dai creditori.
La questione non è di poco conto: cosa succederebbe se l'elettorato di uno Stato membro si esprimesse in netto dissenso con i diktat dell'Unione?
Certamente l'introduzione dell'Euro ha marcato una fortissima accelerazione del processo d'integrazione europea e senza quest'integrazione, d'altro canto, la moneta unica non avrebbe motivo di esistere (Figura 5). A tal proposito, la Banca Centrale Europea riveste un ruolo cardine, controllando la politica monetaria dell'Eurozona e decidendo i tassi di interesse con cui si rifinanziano le banche in tutti i Paesi membri.

In tema di politica fiscale, il Patto di stabilità entrato in vigore nel 1998 prevede che il disavanzo statale non superi il 3% del PIL e stabilisce l'obbligo per i Paesi membri di raggiungere il rapporto debito pubblico/PIL al di sotto del 60% o comunque di cercare di ridurlo nel caso siano già oltre tale soglia; è inoltre previsto un meccanismo che impone avvertimenti e sanzioni agli Stati che non si adeguano con tempestività.
Nel 2013, sotto l'impulso tedesco, la disciplina fiscale è stata ulteriormente inasprita, attraverso l'introduzione del Patto di bilancio europeo (Fiscal Compact) che prevede l'obbligo del perseguimento del pareggio di bilancio, al netto della congiuntura, e l'obbligo della riduzione del debito pubblico, con il rientro al di sotto della soglia del 60% per il rapporto debito pubblico/PIL da raggiungere in soli vent'anni.
Se le prescrizioni previste dal Patto di stabilità pur nella loro rigidità potevano ritenersi ispirate a criteri di buon senso, le misure del Fiscal Compact sono apparse sin da subito troppo severe e controproducenti: questo sistema di norme a cosa porterà di fatto nell'Eurozona? Perché per quanto gli Stati membri siano formalmente liberi di centrare i loro obiettivi di bilancio con misure discrezionali, il raggiungimento passa quasi inevitabilmente attraverso un processo di riforme strutturali simili a quelle che la Germania ha attuato nello scorso decennio.
Se è vero che da un punto di vista economico tali riforme possono anche ritenersi opportune, risulta altrettanto vero che l'attuazione di un simile modello pone degli interrogativi su come si interpreta la democrazia, dal momento che tutto ciò sta avvenendo in assenza di un vero dibattito interno.
Sull'onda dei timori per la crisi del debito sovrano, una svolta storica come quella innescata dal Fiscal Compact è passata quasi sotto silenzio e non si è compiuto alcuno sforzo per cercare di creare almeno un certo consenso popolare attorno alle misure introdotte.

Si può anche affermare che l'intero processo d'integrazione europea è stato condotto in presenza di una debolezza del Parlameto: le decisioni sono state prese dal Consiglio dei Capi di Stato e di Governo e ratificate dai Parlamenti nazionali senza sostanziali modifiche. Può questo iter essere giustificato dalla necessità di rilanciare in fretta il progetto europeo? Con la fine della Guerra Fredda l'Europa rischiava di perdere centralità e di vedersi marginalizzata dall'ascesa di nuove potenze economiche e dallo spostamento dell'asse dell'economia mondiale dall'Atlantico al Pacifico.
E proprio all'interno di tali cambiamenti epocali, il ruolo dell'Euro ha assunto un significato enorme, dal fortissimo valore simbolico: quando ci riferiamo alla moneta unica non si può far solo riferimento ad un aspetto meramente economico, ma soprattutto ad una grande ed ambiziosa idea, un comune progetto europeo, da cui non si può tornare indietro (Figura 6). Col senno di poi, si può probabilmente affermare che l'unione monetaria sarebbe dovuta arrivare solo al termine del processo d'integrazione; è invece avvenuto il contrario, ovvero si è inaugurata la circolazione della moneta unica prima che ne esistessero le pre-condizioni, con il risultato di obbligare i Paesi membri ad un'integrazione sempre più forte nel tentativo di renderla sostenibile.
In una unione monetaria i Paesi in difficoltà non possono trovare respiro svalutando la moneta nazionale e diventa quindi fondamentale la presenza di trasferimenti fiscali, ossia massicci trasferimenti di risorse dalle regioni più ricche a quelle più povere: ma perché questi trasferimenti siano politicamente accettabili, deve esistere una certa uniformità nelle azioni dei Governi dei singoli Stati e nei valori a cui queste azioni si ispirano.
Nonostante tali considerazioni, non si può certo asserire che il Governo tedesco non sia europeista: il Governo di Angela Merkel ha sempre creduto con forza nel progetto europeo anche quando gli euroscettici di Alternative fur Deutschland hanno iniziato a erodere il consenso del partito guidato dalla Cancelliera, la Cdu. La Germania è stata d'altronde tra i Paesi che più hanno beneficiato dell'unione monetaria, la quale ha eliminato la possibilità delle ricorrenti svalutazioni competitive da parte degli altri Paesi membri. Nel 2014 il surplus delle partite correnti in Germania ha superato i 213 miliardi di Euro e Berlino, da ben otto anni, viola le regole europee relative al surplus delle esportazioni (il limite fissato al 6% del PIL calcolato sulla media degli ultimi tre anni viene regolarmente superato). Il surplus tedesco di fatto alimenta una situazione di squilibrio, mentre la Germania dovrebbe attuare una politica espansiva volta a stimolare consumi e investimenti: così facendo favorirebbe la ripresa delle economie degli altri Paesi dell'eurozona.

L'impegno per sostenere la crescita in Europa da parte della leadership tedesca è stato insufficiente, come scarsa l'attenzione alla sostenibilità politica delle misure richieste ai vari Governi. Anche sulla questione greca l'approccio è discutibile: non è stata proposta al popolo greco nessuna possibilità di riscatto, mentre si continua a negare l'ipotesi di una ristrutturazione o di un taglio almeno parziale del debito, nonostante appaia chiaramente impossibile che la Grecia possa riuscire a ripagarlo interamente. C'è probabilmente la volontà di mostrare a tutta l'Europa che gli impegni presi vanno rispettati, ma ignorare la necessità di costruire il consenso popolare attorno ad un programma politico è un atteggiamento miope: lo stesso che ha contribuito ad affossare il Governo Samaras, portando al successo Syriza, e che sta alimentando il successo di partiti e movimenti euroscettici in tutta Europa. L'atteggiamento di Berlino, in definitiva, renderà la vita difficile ai partiti che tradizionalmente sostengono il processo d'integrazione europea.
Contraltare alla linea tedesca in questi anni è stato il Governatore della BCE Mario Draghi, il quale è riuscito a tirar fuori l'Eurozona dalla crisi del debito sovrano grazie alla sua determinazione (più volte in passato ha affermato che sarebbe stato disposto a fare qualsiasi cosa pur di difendere la moneta unica). A gennaio di quest'anno, inoltre, Draghi è riuscito a imporre la sua linea sul Quantitative Easing, un programma di acquisto programmato di titoli sul mercato secondario, volto a immettere in circolazione un enorme quantità di moneta al fine di stimolare la ripresa economica: tale programma, che prevede un investimento totale di circa 1140 miliardi di Euro, segue l'esempio di analoghe politiche attuate da Stati Uniti e Giappone. La BCE, inoltre, ha trovato il modo di finanziare le disastrate banche greche attraverso gli ELA (Emergency Liquidity Assistance), causando l'irritazione del presidente della Bundesbank Jens Weidmann.

L'attuazione di tali misure sta portando i risultati sperati e sta dando ragione a Draghi: i dati macroeconomici dell'economia europea hanno cominciato a registrare i primi segni di una possibile ripresa e sembrano certificarne la bontà del suo operato. Secondo Moody's, infatti, le misure previste dalla BCE, l'Euro debole e i più bassi prezzi del petrolio daranno una spinta all'economia dell'area Euro, con una crescita del PIL che si attesterà all'1.5% sia nel 2015 che nel 2016, cifre molto più incoraggianti rispetto a quelle fatte registrare negli ultimi anni (Figura 7 e Figura 8).
L'unione monetaria ha segnato un punto di svolta nel processo d'integrazione, ma se attuata in questi termini rischia di affossare l'intero progetto europeo. All'orizzonte, per giunta, si stagliano ulteriori pericoli: basti pensare al possibile referendum sull'uscita del Regno Unito dall'Unione Europea, sul quale si è soffermato il Primo Ministro Cameron, a seguito del suo recente successo elettorale.
Se si vuole evitare un velleitario ritorno ad un Europa delle piccole patrie si deve rifondare l'Unione partendo da valori e ideali condivisi: l'Europa deve essere in grado di trovare un proprio modello di funzionamento che tenga conto delle peculiarità di tutti i Paesi membri e delle priorità dei suoi cittadini.