Scade lunedì 17 luglio l’accordo sul grano ucraino, noto come "Black Sea Initiative". Mosca ha annunciato la sua riluttanza ad estenderlo dopo l’ultima intesa del maggio scorso, quando l’aveva prorogato per altri 60 giorni. L’accordo sul grano è in vigore dal luglio 2022. Dopo quattro mesi di guerra, si paventava un disastro alimentare nel momento in cui l’Ucraina non avesse potuto esportare cereali. Prima della guerra, l’Ucraina era il quinto esportatore mondiale: aveva il 10% del mercato del frumento, il 15% del mais, il 13% dell’orzo. Deteneva addirittura la metà del mercato dell’olio di girasole. Le esportazioni contribuivano al sostentamento di circa 400 milioni di persone tra Europa, Medioriente e Nordafrica, ma anche in Cina, Indonesia e Pakistan.
Con lo scoppio della guerra, il sistema di produzione, stoccaggio ed trasporto del grano ucraino è entrato in crisi. Non solo la perdita di terre ora teatro di scontri militari o sotto occupazione (circa un quinto del paese): ma anche il richiamo di agricoltori alle armi, con conseguente perdita di forza lavoro. Poi, la distruzione di infrastrutture (strade, ferrovie, silos, magazzini, porti) e i problemi di approvvigionamento energetico. Infine, la crescita esponenziale dei premi assicurativi per compagnie interessate ad avventurarsi nel Mar Nero, ora zona di guerra. Proprio quest’ultimo problema rappresentava l’ostacolo principale all’evacuazione del grano comunque prodotto in Ucraina.
In un anno oltre mille navi
Con la mediazione di Turchia e Onu, Russia e Ucraina avevano appunto concordato di stabilire un corridoio marittimo esente da attacchi. Largo 3 miglia e lungo oltre 300, questo corridoio va dalla zona di Odessa (dove si trovano i tre principali porti per l’export) fino al Bosforo. Da allora, sono state esportate circa 30 milioni di tonnellate cubiche di cereali (circa il 65% dell’export pre-conflitto), trasportate da oltre 1000 navi.
La via marittima rimane cruciale. Il trasporto via treno verso i paesi dell’Europa orientale come Polonia e Ungheria è più costoso, meno efficiente e molto laborioso: lo scartamento dei treni ucraini è più ampio di quelli europei, quindi il grano deve essere scaricato e ricaricato su altri convogli all’attraversamento di confine. Senza contare le rimostranze degli agricoltori magiari e polacchi, i quali si sono trovati a gestire un’improvvisa sovrabbondanza che ha fatto crollare i prezzi dei cereali locali. Ottenuto dai rispettivi governi un bando sulla vendita in loco di prodotto ucraino, questo deve giocoforza raggiungere ora i mercati finali di sbocco in Europa centro-occidentale (come Italia, Spagna, Olanda) su gomma; o essere imbarcato a Danzica per il mercato globale.
Le ragioni ufficiali (e ufficiose)
Cosa spinge dunque la Russia a non sottoscrivere un rinnovo dell’accordo? La retorica ufficiale parla di grano mandato soprattutto verso i mercati dei Paesi sviluppati. Questi hanno infatti assorbito quasi metà dell’export ucraino. La Russia si era detta disposta all’accordo per non affamare Paesi più poveri, in particolare alcuni come Algeria ed Egitto con cui intrattiene importanti relazioni. Solo un quarto delle esportazioni sarebbe andato a Paesi a basso reddito, accusa Mosca. Vero: ma lo è altrettanto il fatto che l’afflusso di grano ucraino sul mercato ha contribuito comunque a calmierare i prezzi a livello globale, con beneficio anche per i Paesi a maggiore rischio alimentare.
In realtà, Mosca si aspettava che l’accordo portasse anche ad una rimozione, seppur parziale, di una serie di ostacoli al proprio export di grano e fertilizzanti.Lo ha confermato lo stesso Vladimir Putin a poche ore di scadenza dall'intesa in un'intervista a Ria Novosti, sottolineando che "Mosca estenderà l'accordo sul grano solo quando saranno mantenute le promesse fatte". Gli ostacoli sono sostanzialmente due. Per quanto concerne il primo, l’estromissione della Russia dal sistema Swift (in particolare della Banca Agricola Russa, la Rosselkhoz Bank), nuoce gravemente alla possibilità di comprare grano russo da parte di attori esteri. Per quanto riguarda i fertilizzanti, Mosca chiede il ripristino di un condotto per l’export di ammoniaca che finisce ad Odessa, e che gli ucraini hanno interrotto.
Tuttavia, è bene rimarcare che due dei principali attori in gioco non vedrebbero di buon occhio un ritiro russo dall’accordo. Infatti, il restante quarto dell’export andava a Paesi a medio reddito come Turchia e Cina. Ankara ha, dall’inizio della guerra, giocato con estrema abilità su due tavoli: membro della Nato, ha però rifiutato di applicare le sanzioni occidentali, mantenendo anche aperti i collegamenti aerei con la Russia. Questo le è valso appunto il ruolo da mediatore chiave, capace di sedersi al tavolo tanto con Mosca che con Kiev. Nel contesto dell’accordo sul grano, la Turchia non ha solo importato a prezzi favorevoli importanti derrate alimentari, ma ne ha anche beneficiato come snodo logistico fondamentale rivendendo il grano che giungeva nei suoi porti. Ma la consegna di alcuni membri del famigerato battaglione Azov a Kiev nei giorni scorsi - prigionieri di guerra affidatigli da Mosca - può avere spinto Mosca ad alzare la voce nei confronti di Ankara, seppur indirettamente.
Il peso di Pechino
Infine la Cina. Una crisi alimentare globale è invisa a Pechino: nel G-20 dello scorso anno aveva presentato un piano per la sicurezza alimentare globale, parte della strategia di lungo termine di ergersi a paladino del cosiddetto "Sud Globale". Le azioni di Mosca, oltre a rendere tale progetto oltremodo problematico, avrebbero impatti negativi anche sul mercato alimentare interno: la Cina ha comprato oltre 5 delle 30 milioni di tonnellate esportate da Kiev. Senza contare gli effetti su Paesi ad essa vicini e già in crisi come il Pakistan. Non è chiaro dunque quanto Mosca possa trovare una sponda in Pechino anche in questo caso. Fare la voce grossa con la Turchia è molto problematico per la Russia. Farlo con la Cina impossibile.
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