È iniziato a Vienna, lo scorso 29 novembre, il settimo round di negoziati tra i segnatari del Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), ovvero l’accordo sul programma nucleare iraniano. Da una parte, quali rappresentanti comunità internazionale, il cosiddetto "5+1": i cinque membri del Consiglio di Sicurezza ONU (USA, Regno Unito, Francia, Russia e Cina) più la Germania. Dall’altra, l’Iran.
Si sta tentando, con incontri che procedono a singhiozzo, tra pause, rinvii ed esternazioni di scarsa fiducia per la controparte, di ridare nuova linfa all’accordo. Accordo che, firmato nel 2015, prevedeva da una parte la rimozione delle dure sanzioni economiche comminate all’Iran da Washington per via del suo programma nucleare. Dall’altra, l’Iran acconsentiva a un rigoroso regime di ispezioni gestito dalla IEAE, l’agenzia nucleare dell’ONU. L'intesa fu stralciata unilateralmente da Trump nel 2018.
Dopo Obama e Trump tocca a Biden
Da allora, molte cose sono cambiate. Dopo Obama (che spinse per il trattato) e Trump (che appunto lo abbandonò), ora tocca a Biden: il quale ha mantenuto un atteggiamento, finora, simile alla linea dura del presidente repubblicano. A Teheran, a giugno 2021, è stato eletto Ebrahim Raisi a capo dell’esecutivo: un conservatore con un passato da giudice durante gli anni Ottanta, quando mandò al patibolo centinaia di oppositori del regime. Un cambio significativo rispetto al moderato Rouhani, fautore dell’accordo, che sottintende un irrigidimento delle posizioni iraniane.
Eppure, l’avvicendamento di sia pur importanti figure politiche distoglie l’attenzione da considerazioni di natura strutturale, ovvero che riguardano la natura stessa del rapporto tra Iran e USA, la potenza che può decidere il destino dei negoziati, al di là della formula, istituzionalmente dal sapore multilaterale e quindi più legittima, del "5+1".
Gli assetti del Medio Oriente
La questione fondamentale del contendere rimane infatti il ruolo dell’Iran nel Medio Oriente e la minaccia che questo rappresenta per l’egemonia americana globale. L’Iran, per dimensioni demografiche e territoriali, risorse naturali, popolazione (giovane e mediamente molto istruita per gli standard regionali) e soprattutto consapevolezza di sé, si pone in maniera quasi naturale come potenza dominante del Medio Oriente. L’Iran è un’idea compiuta, è una nazione e si sente tale: una storia plurimillenaria, un’eredità imperiale che ne è tratto distintivo, capace di tenere insieme una popolazione variegata che integra, al nucleo persiano, azeri, armeni, arabi, baluci, curdi, luri, turkmeni. Le varie iterazioni dinastiche che si sono succedute hanno mantenuto una sostanziale continuità con tale dimensione identitaria. La rivoluzione del 1978-79 e l’avvento della repubblica islamica hanno poi conferito, in epoca contemporanea, un vettore ideologico per estendersi oltre il pur vasto altopiano iranico.
La Mezzaluna sciita
Da allora, Teheran si è posta quale riferimento del mondo musulmano in virtù delle proprie credenziali islamiste. Se è un progetto in qualche modo viziato dalla natura sciita dell’Islam iraniano, minoritario in senso globale, è pur sempre vero che importanti e numerose comunità sciite sono presenti in tutto il Medioriente. Quando, all’inizio del suo regno, il re sunnita Abdullah II di Giordania parlò di una "Mezzaluna sciita" si riferiva esattamente a questa capacità dell’Iran di tessere legami con vari attori della regione grazie alla comune ascendenza religiosa.
È una carta, questa, che Teheran ha giocato con grande sapienza negli ultimi vent’anni: il rafforzamento dello storico legame con gli sciiti libanesi di Hezbollah, spina nel fianco di Israele; il supporto al regime alawita (un ramo dello sciismo) di Bashar al-Asad in Siria che, sebbene laico, ha saputo trovare nell’Iran un alleato prezioso che ne ha garantito la sopravvivenza durante la guerra civile; l’appoggio ai ribelli Houti in Yemen, anch’essi appartenenti ad un ramo minore dello sciismo, che controllano la parte nord del paese; e soprattutto, l’instaurazione in Iraq di un regime controllato da forze politiche espressione della maggioranza sciita.
Lo scacchiere
L’espansione dell’influenza iraniana è dunque il punto focale dei calcoli geostrategici regionali. I primi a opporvisi, sin dagli anni della rivoluzione, furono le monarchie del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita, il cui ruolo di guida del mondo islamico veniva attaccato direttamente da Teheran dopo il 1979. E poi, Israele: alleato dell’Iran dello Scià, venne etichettato come "piccolo Satana" da Khomeini, dipinto come avamposto imperialista nel cuore del mondo musulmano. La retorica e la politica del regime non hanno mai abbandonato tali posizioni fortemente antisioniste. Per tutta risposta, Israele, più di chiunque altro, contempla da sempre opzioni militari contro la minaccia iraniana e si adopera per la sua emarginazione in ambito internazionale.
Nella visione khomeinista, al "piccolo" seguiva il "grande Satana", gli USA. Ancora una volta, senza prospettiva storica rimane difficile comprendere le difficoltà delle trattative di questi giorni. Per gli Iraniani, gli Stati Uniti sono coloro che rimossero, pianificando e sostenendo un colpo di stato, Mohammad Mossadeq, primo ministro democraticamente eletto nel 1951, per imporre il regime autocratico dello scià Pahlavi. Gli Stati Uniti fornirono armi e appoggio all’Iraq di Saddam quando questi attaccò nel 1980 scatenando una guerra che sarebbe durata otto anni. Sono coloro i quali hanno imposto al paese un regime di sanzioni economiche durissime, impendendo l’ingresso dell’Iran al mercato globale e impoverendone la popolazione. Infine, gli Stati Uniti hanno ricusato il JCPOA unilateralmente: come potersi fidare di sottoscriverne un altro con loro, quando non hanno saputo mantenere la parola data?
Il fantasma di Jimmy Carter
Gli USA, peraltro, sono ancora scottati dalla crisi degli ostaggi del 1979-80, quando per 444 giorni quasi settanta diplomatici americani di stanza all’ambasciata di Teheran furono sequestrati in violazione della piu’ elementari norme del diritto internazionale. L’Iran ha poi avviato un ambizioso programma missilistico, sostenuto gruppi definiti come terroristi dalle agenzie USA (oltre ai citati Hezbollah, anche Hamas e Jihad Islamica in Palestina), e dato vita ad un regime con conclamate ed estese violazioni dei diritti umani.
In questo contesto, il dossier del nucleare iraniano emerge in tutta la sua complessità. Il programma nucleare fu iniziato già dallo Scià (con il beneplacito di Washington).
Teheran lo ha sempre definito come volto solo a scopi civili. Gli USA e i suoi alleati regionali non ci credono.
Temono che l’Iran voglia l’ordigno atomico. Con tale arma, il regime si proteggerebbe da qualsiasi piano di invasione: gli Iraniani considerano la deterrenza nucleare come garanzia di sopravvivenza. Gli Israeliani la vedono come minaccia esistenziale, sebbene proprio Israele sia, al momento, l’unica potenza nucleare della regione (ufficiosamente si pensa che Tel Aviv abbia tra le 80 e le 100 testate atomiche). E per gli USA, un Iran nucleare impedirebbe di mantenere l’attuale assetto multipolare nel Medioriente, quello preferito da Washington: un ‘caos controllato’ dove tanti stati sono abbastanza potenti da avere ambizioni, ma dove nessuno è davvero in grado di diventare dominante.
L'assenza che pesa e le sanzioni
In questo quadro, a sottolineare la tensione – e la sfiducia – che regna tra le due parti è proprio l’assenza dai tavoli negoziali di Vienna degli Stati Uniti, i quali partecipano per interposta persona tramite Gran Bretagna, Francia e Germania. Quando gli USA si ritirarono dal JCPOA, reimponendo le sanzioni rispetto al programma nucleare che si erano impegnati ad eliminare, l’Iran violò anch’esso, specularmente, la sua parte dell’accordo. Limitò fortemente l’accesso alle strutture nucleari agli ispettori della IEAE; rincominciò ad arricchire l’uranio, portandolo oltre la soglia del 3,67% consentita, soglia alla quale può essere utilizzato come materiale per la produzione di energia. Al momento, l’uranio è arricchito al 60%. Ancora lontano dal 90% necessario per produrre un ordigno, ma comunque abbastanza per rendere, a breve, l’Iran una potenza nucleare ‘latente’: ovvero, un paese che ha tutte le capacità tecnologiche per dotarsi di un’arma atomica quando lo desiderasse (come per esempio Giappone e Germania).
Per Teheran, solo una rimozione totale delle sanzioni fermerebbe ulteriori processi di arricchimento. Le sanzioni comminate all’Iran sono imposte e gestite da Washington, che usa tutto il suo potere per imbrigliare il regime iraniano: oltre alle sanzioni sul programma nucleare, ci sono sanzioni specifiche per il programma missilistico, per il sostegno a gruppi terroristi, per le violazioni dei diritti umani. Sanzioni che colpiscono pressoché tutti i settori economici: limitazioni di esportazioni di idrocarburi, di accesso ai mercati valutari e finanziari (incluso il sistema SWIFT di pagamenti internazionali), di importazioni di vari beni di consumo (dalle medicine a ricambi per aerei, per citare solo i più controversi). E ancora: contro specifiche imprese, banche e financo individui; e ingiunzione, anche a paesi terzi, di non violare questo embargo, pena il mancato accesso al mercato e servizi USA, con tutto ciò che questo comporta (cosa su cui stati redarguiti recentemente, per esempio, gli Emirati, che hanno intensificato i rapporti con Teheran).
La circospezione di Mosca e di Pechino
Cina e Russia, in maniera comunque circospetta, continuano ad intrattenere rapporti commerciali con l’Iran abbastanza significativi, ma certo, l’effetto netto delle sanzioni è quello di mantenere il paese nel ruolo di paria internazionale a livello economico, commerciale e finanziario. Di conseguenza, l’economia iraniana è in uno stato di crisi semi-permanente causata, oltre che dalle sanzioni, da una diffusa corruzione e malagestione dell’economia. Scontento e tensioni sociali si sono aggravate recentemente, e la disillusione verso il regime è stata testimoniata dalla bassissima (48%) affluenza alle urne per l’elezione (in qualche modo comunque scontata) di Raisi.
Si tratta dunque di uno stallo di difficile soluzione. Gli USA vorrebbero reintrodurre il JCPOA così com’era, senza nessuna modifica. Un accordo che aveva una durata decennale e verteva sulla rimozione delle sanzioni legata al programma nucleare (ma non delle altre). L’Iran ribatte che la situazione non è quella del 2015: sono stati gli USA a ritirarsi dall’accordo, e quel ritiro ha comportato il giustificato arricchimento, secondo Teheran, dell’uranio al 60%. Non basta. L’Iran chiede, per un nuovo accordo, una rimozione di tutte le sanzioni, e una clausola che non permetta agli USA di rinnegarlo di nuovo.
La prospettiva di un Iran non piu’ imbrigliato dal regime delle sanzioni comporterebbe, secondo alcuni studi, un incremento del PIL di circa il 30% nei prossimi cinque anni: forse una stima troppo ottimistica, ma che indica come, per quanto si è detto in precedenza, l’Iran si avvicinerebbe sostanzialmente allo status di potenza dominante della regione cui aspira.
Gli USA e gli stati arabi forse pensano di poter gestire una tale ascesa, usandola anche in funzione anti-turca, l’altra potenza del Medioriente che si è posta in rotta di collisione con entrambi su vari fronti. Ma un Iran più potente è invece inammissibile per Israele. Per lo stato ebraico, già fortemente oppostosi al JCPOA nel 2015, ad un più rigido regime di sanzioni, ovvero severo abbastanza da portare l’Iran a miti consigli, si deve affiancare un piano militare da proporre come iniziativa concreta. Israele fa notare come sia il caso di smettere di trattare l’Iran come la potenza che non è, specie quando affronta, virtualmente da solo, gli Stati Uniti: insomma, l’uso della forza deve essere contemplato.
Prospettiva, questa, che agli Stati Uniti, stanchi di guerre mediorientali, appare quantomai problematica. L’Iran, ricordiamolo, ha una superficie quadrupla rispetto all’Iraq e una popolazione tre volte piu’ numerosa: senza contare il caos regionale che andrebbe a fomentare grazie a tutti gli alleati di cui dispone. Un attacco all’Iran, insomma, potrebbe dar via ad una guerra regionale tout-court le cui dinamiche ed esiti sono difficili da prevedere.
Il dilemma
Consci di tutto questo, i conservatori di Teheran, ora al potere con Raisi e allineati con il vecchio (82enne) ayatollah supremo Ali Khamenei, giocano sulle diverse posizioni di un fronte avversario spaccato. Einstein diceva che pazzia è ripetere la stessa operazione sperando in risultati diversi: dopo quarant’anni di sanzioni, possiamo domandarci se siano effettivamente la tattica migliore per risolvere l’attuale impasse. E possiamo anche chiederci se l’alternativa, nel medio periodo, sia davvero tra un Medioriente nuclearizzato o una catastrofica guerra preventiva.
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