Sottoposto da un quadriennio alle più dure sanzioni economiche mai comminate dagli Stati Uniti a un Paese straniero, l’Iran esce economicamente e politicamente prostrato dalla presidenza Trump, che l’ha inserito, nella "Nuclear Posture Review 2018", tra la maggiori “minacce contemporanee” ai suoi interessi, dopo Russia, Cina e Corea del Nord.
Tutto ciò che in questi anni poteva andar male, per l’Iran è andato, se possibile, anche peggio. Il Covid 19 ha colpito circa 600mila persone e causato oltre 33mila vittime, in base ai dati ufficiali governativi, peraltro largamente sottostimati secondo fonti dell’opposizione politica. I ripetuti (ma spesso solo parziali) lockdown, anche verso i Paesi confinanti, hanno creato seri danni all’economia, senza tuttavia risolvere l’emergenza sanitaria. La pandemia ha invece contribuito a far crollare i corsi internazionali del petrolio, della cui esportazione il Paese vive largamente da un secolo: ma i prezzi spuntati dai greggi iraniani sui mercati internazionali - inferiori ai corsi medi internazionali per trovare compratori disposti a correre il rischio d’incappare anch’essi nelle sanzioni Usa - sono lontani anni-luce dai 195 dollari oggi necessari per pareggiare il bilancio statale (il famigerato breakeven point, che ancora all’inizio dell’anno era collocato a 155 dollari).
La debolezza sociale
Il regime, memore delle violente proteste popolari che nel novembre 2019, secondo Amnesty International, causarono oltre 300 morti e 7.000 arresti per l’aumento repentino del 300% del prezzo dei carburanti, ha tentato di lenire le più urgenti necessità socio-economiche raschiando il fondo del barile del budget statale con lo stanziamento di 6,3 miliardi di dollari. Si è però trattato di una minima parte (circa l’1,4% del Pil) rispetto a quanto sono state in grado di mobilitare, secondo Fitch Ratings, le vicine petro-monarchie del Golfo, dal 30% di Bahrain e Oman all’oltre 10% degli Emirati Arabi Uniti e del Qatar e al 4% dell’Arabia Saudita. Quasi un quarto della popolazione vive sotto il limite della povertà e il tasso di disoccupazione, stimato al 18% all’inizio del 2020, ora probabilmente supera il 25%. Il dato, poi, vale di fatto solo per gli uomini, considerato che l’anno scorso, secondo la Banca mondiale, appena il 14% delle donne in età lavorativa aveva un’occupazione stabile.
Infine, è scoppiata la vera e propria “tempesta politica perfetta”, costituita dai cosiddetti “accordi di Abramo”, con i quali gli Emirati Uniti e il Bahrain, seguiti dal Sudan (e tra non molto da Oman e Arabia Saudita), in settembre e ottobre hanno riconosciuto Israele sul piano diplomatico, rompendo il fronte arabo anti-israeliano e lasciando l’Iran solo con la Turchia a perorare la causa palestinese e anti-sionista.
Le elezioni-chiave
Eppure, anche se la situazione sembra disperata, non tutto è perduto per il regime degli ayatollah. Certo, se Donald Trump restasse alla Casa Bianca i problemi potrebbero, se possibile, aggravarsi ulteriormente. Ma se Joe Biden diventasse il nuovo presidente americano, alcuni interessanti spiragli potrebbero aprirsi con una certa rapidità. Egli ha infatti dichiarato più volte, durante la campagna elettorale, di voler far rientrare gli Usa nell’accordo Jcpoa (Joint Comprehensive Plan of Action), che dal 2016 ha posto sotto il controllo dei 5 membri del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, insieme a Germania e Unione Europea, le attività nucleari iraniane per evitare che Teheran cercasse di fabbricare un’arma atomica, ma da cui Trump aveva deciso di ritirarsi unilateralmente nel 2018. Questo rientro non potrà che partire dalla fine, più o meno rapida, di tutte - o almeno di gran parte - delle sanzioni economiche.
Nel giugno 2021 si terranno le prossime elezioni presidenziali, alle quali il presidente uscente, il moderato Hassan Rouhani, in carica dal 2013, non potrà ripresentarsi. Per evitare che un candidato oltranzista salga al potere, niente di meglio per gli Usa che offrire un allentamento delle sanzioni a un elettorato frustrato e disilluso. Senza di esse, l’economia iraniana ha dimostrato di poter galoppare (+12,5% il tasso di crescita nel 2016). Molti Paesi europei, che hanno cercato di mantenere in vigore l’accordo Jcpoa nonostante l’ostilità di Trump, ma anche gli stessi Usa, non vedono l’ora di poter passare all’incasso, sotto forma di contratti per ricostruire il Paese e partecipare allo sviluppo delle sue enormi riserve energetiche (155,6 miliardi di barili di petrolio e 32mila miliardi di m3 di gas, rispettivamente pari al 9% e al 16% del totale mondiale).
Una coppia di amici
Grazie anche a questa ricchezza d’idrocarburi, infatti, l’Iran non è certo privo di amici. Per ovvie ragioni geo-strategiche, Russia e Cina hanno contribuito notevolmente alla sua resistenza alle sanzioni americane. In particolare, Mosca ha cooperato costruendo e partecipando alla gestione dell’impianto elettronucleare di Busher, finora il solo del Paese, e vendendo armamenti, come il sistema antiaereo S-300PMU2 e temibili missili anti-nave. La fine dell’embargo sulla vendita di armi al Paese, contemplato dagli accordi Jcpoa e sancito dall’Onu nelle scorse settimane, offre la possibilità di acquistare armamenti russi assai più sofisticati, come i missili antiaerei S-400, gli aerei da caccia S-30SM e i carri armati T-90. Un accordo, firmato all’inizio del 2016 e poi congelato per il citato embargo Jcpoa, prevedeva vendite per ben 8 miliardi di dollari.
Ma è con la Cina che, in prospettiva, i rapporti appaiono destinati a intensificarsi fortemente. Nella sua strategia della “via della seta” Teheran ha un ruolo di primo piano: non a caso, fin dal febbraio 2016 i due Paesi sono collegati da una ferrovia che attraversa il Kazakistan e il Turkmenistan. Tanto che, nei mesi scorsi, Pechino e Teheran hanno firmato un colossale accordo (dai contenuti in gran parte segreti), della durata di 25 anni e del valore di ben 400 miliardi di dollari, che prevede la modernizzazione di tutta l’economia iraniana, dalle telecomunicazioni (con il discusso 5G) alle banche, dai trasporti (strade, porti ferrovie) allo sviluppo dell’enorme giacimento petrolifero di South Azadegan (ricco di ben 27 miliardi di barili), in cambio di forniture di greggio iraniano a prezzi scontati (si parla del 12-15%) rispetto alla quotazione ufficiale e con pagamenti posticipati di un biennio.
Pechino ha fame di petrolio, ma non solo
Già da alcuni mesi le esportazioni iraniane di greggio (specie verso la Cina) sono molto superiori a quanto ufficialmente dichiarato: secondo l’agenzia Reuters, in settembre sono stati sfiorati 1,5 milioni di barili /giorno (mb/g), contro 0,35-0,50 mb/g di agosto e un valore dichiarato di 0,2-0,4 mb/g. Tutto ciò grazie a un sempre più efficace sistema di trasbordo del petrolio da nave a nave effettuato nelle acque compiacenti di Malaysia e Indonesia, non a caso entrambi Paesi musulmani. Inoltre, la capacità iraniana di esportazione aumenterà ancora all’inizio del 2021, quando sarà ultimato l’oleodotto Goreh-Jask, che corre per 1.100 chilometri lungo la costa del Golfo Persico e della capacità iniziale di 0,35 mb/g, presto raddoppiabili, che consentirà di evitare lo stretto di Hormuz riducendo i rischi di transito.
Ma è sono le implicazioni geo-strategiche l’aspetto più rilevante dell’accordo bilaterale. Esso, infatti, recide il lungo rapporto intercorso tra Iran e India, culminato sull’uso gratuito del moderno porto di Chabahar, posto quasi al confine con il Pakistan, che New Delhi aveva contributo a costruire insieme a una linea ferroviaria, lunga 900 chilometri, per collegare lo scalo alla provincia afghana di Bamiyan, ricchissima di ferro. Chabahar, insieme agli altri porti di Bandar-e-Bushehr e Bandar Abbas, diverrà la spina dorsale degli scambi commerciali con Pechino, ma sarà anche un prezioso punto d’appoggio per le flotte militari di Russia e Cina e ospiterà i più avanzati sistemi di spionaggio elettronico di cui dispongono i due Paesi, con cui poter monitorare il cruciale Golfo Persico e contenderne l’uso agli Stati Uniti.
Per Teheran, la sopravvivenza politico-economica val bene un’alleanza con l’invadente Dragone cinese. Almeno per ora.
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