L’America Latina è seduta su immense riserve scoperte di “oro bianco”. Il litio rappresenta infatti oggi una delle vie d’uscita dalla dipendenza dai combustili fossili - e dagli approvvigionamenti dalla Cina - e una fonte di ricavi enorme per il triangolo Cile, Argentina, Bolivia che detiene il 63% delle riserve accertate di litio di tutto il mondo (52 milioni di tonnellate). Essenziale per la transizione ecologica verso le energie rinnovabili, è il metallo solido più leggero del pianeta. È utilizzato nei dispositivi elettrici: dalle batterie delle auto ai cellulari, dagli aerei ai computer. Non sorprende che il presidente del Cile, Gabriel Boric, a fine aprile, abbia aperto la strada alla sua nazionalizzazione - promessa fatta in campagna elettorale - annunciando l’intenzione di creare una società statale per la produzione di litio.

La promessa del presidente cileno

 «Lo Stato avrà il controllo» ha detto il presidente. «Qualsiasi azienda privata, straniera o locale, che voglia sfruttare il litio in Cile deve associarsi allo Stato». E lo Stato sarà socio di maggioranza. La legge dovrà essere approvata dal Congresso entro fine anno. Un esito non scontato perché Boric non detiene la maggioranza. Nel frattempo, lo sfruttamento di questa risorsa strategica continua ad essere affidato a contratti di locazione di società private, la cilena Sqm e l’americana Albemarle, alle quali è stato garantito che verrà rispettata la scadenza dei contratti in corso. Ma il nuovo Piano strategico cambierà l’attuale modello di business del Paese attraverso un impianto pubblico-privato: lo Stato parteciperà all’intero ciclo produttivo e tutto dovrà avvenire con un basso impatto ambientale.

I prezzi aumentati di 11 volte

Perché questo cambio di passo ora? Perché il Cile è il secondo produttore mondiale (22%), dopo l’Australia (48,8%), e seguito dalla Cina (17,1%). L’estrazione mineraria complessiva rappresenta circa il 15% del Pil (dato 2021). Le vendite di carbonato di litio nel 2022 hanno raggiunto i 7.763 milioni di dollari, con un incremento del 777% rispetto all’anno precedente. Un recente rapporto dell’Agenzia internazionale dell’energia ha rilevato che la domanda di litio aumenterà di 42 volte entro il 2040, spinta dalla produzione di batterie per auto elettriche. I prezzi sono esplosi. Negli ultimi due anni sono aumentati di oltre 11 volte: dai 6 mila dollari per tonnellata di marzo 2020 agli oltre 70 mila dollari del 2022. È sufficiente un esempio per spiegare la crescita esponenziale del consumo di litio: la batteria di una sola auto elettrica ne contiene tra gli 8 e i 12 chilogrammi. E già oggi oltre la metà del litio utilizzato per la mobilità elettrica mondiale proviene dall’America Latina. Siamo dunque di fronte ad una domanda senza precedenti. Il mondo è destinato a “elettrificarsi”. L’oro bianco è diventato il nuovo oro nero, in grado stravolgere equilibri economici e politici e trasformare immensi territori. Non senza problemi di sostenibilità ambientale per l’attività di estrazione e l’enorme consumo di acqua.

Le mosse di Messico e Argentina

Ma il Cile, nell’area sudamericana, è in buona compagnia. Dopo l’esplosione di richieste di litio, i governi di Obrador in Messico e Fernández in Argentina stanno lavorando - con formule differenti - per impedire ai propri Paesi di vendere la materia prima senza entrare nella filiera produttiva. Il presidente del Messico, Obrador, ha firmato un decreto per accelerare la nazionalizzazione del litio, l’Argentina sta aumentando la produzione a pieno ritmo, la Bolivia ha una società pubblica che interviene su tutta la filiera. Anche se l’obiettivo di La Paz non è tanto sviluppare a breve termine il litio quanto produrre batterie entro l’inizio del 2025 (più realistico 2030). E, da almeno un anno, sono in corso trattative per la nascita dell’Opec del litio (con l’ingresso del Messico) per regolamentare l’offerta e fissare e controllare artificialmente il prezzo internazionale. Aumentando collettivamente il potere contrattuale di questi Paesi.

Se questo è lo scenario, gli interrogativi però non mancano. Perché il “triangolo del litio”, un’area dell’altopiano andino tra Argentina, Bolivia e Cile, si  sta muovendo così rapidamente? La nazionalizzazione è la strada giusta? Questi Paesi hanno tecnologie e stabilità politica per fare il grande salto? È realistica la nascita di un cartello sul modello dell’Opec? E l’Australia, primo produttore mondiale, rimarrà  al palo o potrebbe trarre vantaggio da questo clima di nazionalizzazione generale? La tendenza alla statalizzazione delle risorse, va detto, è in crescita in molte regioni del mondo dopo l’impennata dei prezzi delle materie prime: dal Congo all’Indonesia, dal Kirghizistan allo Zimbabwe e al Myanmar.

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Le ragioni di questa accelerata sono diverse. Innanzitutto, ci troviamo di fronte alla risposta di governi in gran parte di sinistra (Cile in primis) che hanno l’ambizione di cambiare marcia rispetto al passato e mantenere nel proprio Paese gli enormi ricavi generati dallo sfruttamento delle ricchezze naturali. In Sud America non c’è infatti solo il litio. Messico, Brasile, Perù e Cile sono ricchi di nichel, cobalto, argento, manganese, rame. Il presidente del Messico, Andrés Manuel López Obrador, annunciando la nascita di una società di litio di proprietà statale, ha detto a questo proposito: «Quello che stiamo facendo è nazionalizzare il litio in modo che non possa essere sfruttato da stranieri: né dalla Russia, né dalla Cina, né dagli Stati Uniti».

L'incognita dei conflitti sociali

In seconda battuta, si mira ad una riduzione dei conflitti sociali molto forti in queste aree. L’America Latina ha una lunga storia di conflitti legati all’estrazione dei minerali da parte di società straniere che hanno realizzato profitti ingenti, lasciando benefici minimi alla popolazione locale. Infine, c’è il tentativo di creare nuovi posti di lavoro. L’obiettivo è trasferire alla manodopera locale conoscenze e tecnologie delle grandi aziende minerarie straniere per sviluppare proprie capacità nella lavorazione dei metalli. Lo stesso Boric lo aveva sottolineato nel discorso presidenziale di fine aprile: «Questa è la migliore opportunità che abbiamo per passare a un’economia sostenibile e sviluppata. Non possiamo permetterci il lusso di sprecarla». Eppure, numerosi analisti evidenziano anche i rischi di una nazionalizzazione del litio: lo scarso valore aggiunto dell’estrazione mineraria (la vera fonte di reddito sta tutta nella fabbricazione delle batterie) e la fuga di investitori stranieri di fronte a una legislazione che va contro i privati.

Un metallo difficile da estrarre

Ma diciamolo subito: la strada per l’industrializzazione del litio in America Latina è tutt’altro che facile. Il litio, sebbene abbondante, è difficile da estrarre. Estrazione e lavorazione richiedono investimenti enormi. Come finanziarli dopo le devastanti ripercussioni sulle casse statali causate da pandemia e crisi ucraina? Da soli i governi non hanno la forza di farsi carico dei costi dell’intera filiera produttiva. E per attrarre investimenti va garantita alle società straniere stabilità a lungo termine. Ma non basta. L’esportazione di batterie al litio passa anche attraverso la comodità geografica: il triangolo sudamericano è lontano dai grandi centri di produzione dei veicoli (fatta eccezione per il Messico, al confine con gli Stati Uniti, che però detiene solo 1,7 milioni di tonnellate). È un “triangolo” in questo senso poco competitivo rispetto ai concorrenti asiatici. Senza contare che la nazionalizzazione vanta una pessima storia nei Paesi sudamericani.  Infine, non è ancora è chiara la sostenibilità dell’oro bianco. Per produrre una tonnellata di litio sono necessari circa 2,2 milioni di litri di acqua; le salamoie latinoamericane da cui proviene la maggior parte della produzione sono ecosistemi molto fragili; i bacini idrici locali sono a rischio contaminazione; in pericolo, secondo le associazioni ambientaliste, le comunità indigene che insistono su quei territori.

Operai boliviani in una salina da cui si estrae il litio

Chi frena su un cartello mondiale

E allora l’Opec del litio ha qualche possibilità di vedere la luce? Sappiamo bene che dagli anni Sessanta in poi la storia delle materie prime è ricca di tentativi falliti di organizzare mercati o cartelli. L’Opec del litio è abbastanza improbabile. Ci sono ostacoli legali da superare, rapporti non sempre armoniosi tra i Paesi, riluttanza della Cina che vedrebbe messa in pericolo la sua egemonia. E poi i rapporti che i diversi governi nazionali intrattengono con gli investitori stranieri e le compagnie minerarie internazionali che operano sul loro territorio. Il vero pericolo in futuro potrebbe invece arrivare dal potere di mercato delle grandi compagnie che non si farebbero scrupoli ad ostacolare l’ingresso e la crescita di nuovi operatori, influenzando pesantemente il processo di formazione dei prezzi.

Non ci siamo dimenticati dell’Australia, il maggiore esportatore mondiale di litio. Le analisi rivelano che potrebbe trarre beneficio dal clima di nazionalizzazione che agita il mondo. Gli annunci di statalizzare le risorse potrebbero avere l’effetto di riorientare gli investimenti proprio verso Paesi come l’Australia che offrono una legislazione favorevole e stabile alle imprese private.