È difficile prevedere gli sviluppi nell’immediato, a livello tattico e militare, della guerra in Ucraina. Non è altrettanto difficile constatare che si sta assistendo all’emersione di un nuovo ordine mondiale. Questo è evidente per l’Europa, intesa come spazio geopolitico. Ma lo è anche per il Medioriente. L’attuale conflitto europeo si inserisce in dinamiche già avviate nella regione: esaltandole ed esasperandole, ci fa scorgere i prodromi di importanti sviluppi di medio-lungo periodo.
La Russia nel Medioriente
Innanzitutto, è bene ricordare come la Russia, attore eurasiatico, insista da sempre sul Medioriente. L’interesse russo per gli stretti del Bosforo e dei Dardanelli è una costante storica, rappresentando il suo unico accesso alle acque del Mediterraneo. Ciò implica competizione con la Turchia, in qualsiasi sua incarnazione (ottomana o kemalista), per il controllo del Mar Nero. Nel corso dell’Ottocento, la Russia zarista si spartì la Persia dei Qajar con la Gran Bretagna determinando reciproche zone d’influenza.
Anche ai tempi dell’URSS il potere russo si estendeva fino a confinare direttamente con Iran e Turchia (tramite le repubbliche sovietiche di Armenia, Georgia, Azerbaigian e Turkmenistan). E durante la guerra fredda, il Cremlino coltivò stretti rapporti con i nuovi regimi arabi di ispirazione socialista e anti-occidentale, come l’Egitto di Nasser, l’Algeria del Fronte di Liberazione Nazionale, l’Iraq e la Siria del partito Ba’th. Questa rete di alleanze non si tradusse mai tuttavia in un’egemonia come quella esercitata in Europea centro-orientale.
Al momento, come vestigia di tale proiezione sovietica, rimane il legame con il regime di Damasco, che ospita l’unica base marittima russa fuori dagli ex-confini sovietici. A ciò è dovuto il supporto di Putin ad Al-Assad, che ha comportato un massiccio (e spietato) impiego di forze russe contro gli oppositori del regime durante la guerra civile tutt’ora in corso.
Il ruolo israeliano
All’indomani dello scoppio delle ostilità tuttavia è stato, tra gli attori mediorientali, Israele a porsi come mediatore tra Russia e Ucraina. Il primo ministro Naftali Bennett, alla guida del paese dopo dodici anni di premierato di Bibi Netanyahu, ha incontrato personalmente Putin volando a Mosca lo scorso 5 marzo, mantenendo poi un canale di comunicazione sia con il presidente russo che con quello ucraino. Lo stesso Zelenskyy si è incontrato virtualmente con i legislatori israeliani il 20 marzo. Il suo discorso ha insistito molto sul parallelismo tra Germania nazista e Russia putiniana. Ha sottolineato come espressioni quali "soluzione finale" siano state usate dall’autocrate di Mosca per la "questione ucraina", un chiaro riferimento al linguaggio hitleriano per la "questione ebraica". Invero molti, specie nei vari schieramenti nazionalisti e conservatori che popolano il paesaggio politico israeliano, si sono risentiti per tale paragone.
Se Zelensky, lui stesso ebreo, ha scelto quei termini non è stato solo per spingere gli israeliani a fornire armi all’Ucraina (in particolare, il suo sofisticatissimo sistema di intercettazione missilistica, denominato "Iron Dome") o a unirsi alle sanzioni occidentali contro Mosca – Israele non ha fatto né l’una né l’altra cosa per il momento. Sperava di ottenere un chiaro appoggio politico da parte di un paese che può davvero fregiarsi di canali privilegiati con la Russia.
Il «Palo degli insediamenti»
Il governo israeliano vuole infatti porsi come referente per entrambi gli schieramenti. Vi sono chiare ragioni storiche per questo fatto. Il movimento sionista che ha dato vita allo stato ebraico era largamente composto da personalità provenienti dalle terre del cosiddetto "Palo degli Insediamenti": una vasta area comprendente le provincie orientali dell’impero zarista dove, dalla fine del 1700, il governo di San Pietroburgo aveva confinato le comunità ebraiche sotto il suo dominio. La grande maggioranza dell’ebraismo europeo era appunto stanziato in una regione dove ora troviamo Lituania, Polonia, Bielorussia, Ucraina e Russia occidentale. Dei circa 10 milioni di cittadini israeliani, un milione vanta origini russe e mezzo milione ucraine. Costoro sono emigrati immediatamente in Israele come sopravvissuti dell’Olocausto; molti dopo la caduta dell’URSS.
Rappresentano dunque un legame tra Israele da un lato e Russia e Ucraina dall’altro. Legame che va ad inserirsi in un contesto regionale in fondamentale cambiamento, dove Israele si sta muovendo con grande decisione. Dal punto di vista dei decisori israeliani, il conflitto russo-ucraino si affianca ad altre due questioni: il rapporto con i paesi arabi dopo gli Accordi di Abramo, e il dossier sul nucleare iraniano. Nessuno di questi problemi può essere affrontato in isolamento dagli altri.
Il Triangolo Mediorientale
Il rapporto tra Russia e Israele sfugge a definizioni univoche. Data l’importante comunità russofona o comunque di origine russa nello stato ebraico, vi sono stretti rapporti economici tra i due paesi, ma anche religiosi, culturali, financo famigliari. Allo stesso tempo, la Russia è il principale alleato di uno dei rivali storici di Israele, la Siria; e ancor più rilevante è il suo appoggio al regime iraniano degli ayatollah. Questi è visto da Israele come nemico esistenziale. Da sempre Tel Aviv si oppone a qualsiasi accordo sul nucleare iraniano.
Uno sviluppo del programma in senso civile è considerato solo come un passo verso la bomba atomica. A quel punto, il contenimento del progetto egemonico di Teheran nella regione risulterebbe estremamente arduo, per non dire impossibile. La guerra in Ucraina ha solamente distratto dal fatto che i colloqui per una riattivazione completa del JCPOA (Joint Comprehensive Plan of Action) sono tutt’ora all’ordine del giorno a Vienna, presso la sede dell’energia atomica internazionale. Il JCPOA fu siglato nel 2015 dall’Iran e il cosiddetto "5+1", ovvero i membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (USA, Gran Bretagna, Francia, Cina e appunto Russia) più la Germania. Stracciato nel 2018 unilateralmente da Trump, è stato riproposto dall’amministrazione Biden.
Il JCPOA vede dunque la Russia sedere al tavolo delle trattative tecnicamente dallo stesso lato degli USA e delle tre maggiori potenze europee proprio mentre con esse è in accesso scontro sul fronte ucraino. Ci troviamo in una situazione paradossale: la fine di un regime sanzionatorio (quello verso l’Iran, ricompensa per la rinuncia al programma nucleare) dovrebbe essere sottoscritta e sostenuta da un paese, la Russia, a sua volta oggetto di durissime sanzioni comminate dagli altri segnatari del possibile accordo. Le trattative, che per stessa ammissione degli Iraniani procedevano verso una firma, sono ora in stallo.
La prospettiva di un Iran progressivamente integrato nell’economia globale, e quindi capace di porsi con rinnovata legittimità internazionale quale attore cardine nella regione, preoccupa poi molti stati arabi tanto quanto gli israeliani. Gli Americani, sostenitori delle monarchie del Golfo così come storici alleati di Israele, hanno da sempre nel contenimento di Teheran il loro obiettivo principe nella regione dai tempi della rivoluzione khomeinista del 1979. Ripudiato appunto il JCPOA, Trump si adoperò in quel senso con gli Accordi di Abramo.
Nel 2020 Emirati Arabi, Bahrein e Marocco riconobbero Israele, con Oman, Sudan e addirittura Arabia Saudita probabili futuri firmatari. Tutti paesi con una comprovata ostilità e opposizione verso Teheran (con l’eccezione dell’Oman). È di questi giorni infatti un incontro tra i rappresentanti di Israele, Egitto, Marocco, Emirati e Bahrein, con a margine la partecipazione del Segretario di Stato americano Blinken: si va a delineare un fronte arabo-israeliano per contenere l’Iran, a prescindere dagli sviluppi di Vienna. Un cambiamento epocale, se consideriamo la storia moderna della regione, dove l’instabilità geopolitica è dipesa per decenni dal conflitto arabo-israeliano.
Il riallineamento della regione
Vi sono due importanti considerazioni a questo punto. In primo luogo, gli Stati Uniti hanno sponsorizzato gli Accordi di Abramo certo anche in funzione anti-iraniana: ma come tattica complementare al JCPOA, non alternativa come Arabi e Israeliani vorrebbero. Questa difficoltà statunitense a imporre la linea di politica ai suoi alleati mediorientali indica la perdita di centralità del Medioriente nella visione strategica americana. Centralità che per tutti gli ultimi vent’anni – con le guerre in Iraq e Afghanistan – poteva dirsi assodata.
Washington non solo deve disimpegnarsi dalla regione (lasciando così inevitabilmente più spazio di manovra agli attori locali). Lo deve fare per una guerra in Europa che non si aspettava e che non voleva, e che la distoglie dal vero teatro per l’egemonia globale, l’Indo-Pacifico e lo scontro con la Cina. Ulteriore prova della scarsa capacità americana di imporre la sua linea politica è il rifiuto dell’Arabia Saudita e di altri membri chiave dell’OPEC di incrementare la produzione di greggio. Ciò per abbassare il prezzo al barile e colpire le esportazioni energetiche russe, uno degli ultimi settori ancora non sanzionati.
In secondo luogo, l’allineamento arabo-israeliano avviene senza nessuno sviluppo riguardo il problema che era centro del conflitto tra i due campi, ovvero la questione palestinese. In una visita a Ramallah, Blinken non ha potuto che ribadire il sostegno USA alla soluzione dei due stati. Una soluzione che tutti comprendono essere ormai irrealizzabile. A fronte di cambiamenti epocali nei rapporti tra gli stati sovrani della regione, un popolo senza stato rimane escluso da qualsiasi prospettiva politica.
La Turchia tra Mar Nero, Russia e USA
Vi è infine un ultimo attore che, come ormai consuetudine, si sta muovendo con una certa abilità e spregiudicatezza. La Turchia di Erdogan non può, per quanto detto all’inizio, che guardare con grande preoccupazione quanto avviene sulle coste settentrionali del Mar Nero. Una Russia in controllo da Sochi sul Caucaso fino a Odessa, prendendosi tutto il bacino del Mare d’Azov e annettendo anche de jure la Crimea, rappresenterebbe una minaccia troppo grande per la Turchia. Da qui gli immediati tentativi di Erdogan di fare da mediatore. A differenza di Israele e di Bennet, la Turchia e il suo leader non vantano profondi legami culturali con Russia e Ucraina. Ma hanno da anni canali diplomatici molto attivi specie con il Cremlino, essendosi i due paesi spesso confrontati (anche violentemente) in teatri come la Siria e la Libia. Mosca rispetta la forza, e la Turchia di Erdogan non esita ad usarla.
D’altro canto, è noto il supporto turco a Kiev sotto forma di forniture dei micidiali droni turchi, che tanti problemi hanno dato alla macchina bellica russa nelle prime settimane di guerra.
Sono infine di queste ore colloqui a Istanbul tra i rappresentanti russi ed ucraini. Se da un lato infatti solo un accordo tra Americani e Russi potrà portare ad una soluzione in termini politici della questione ucraina, la Turchia, come gli altri paesi della regione, si è resa ormai conto che un impero americano necessariamente preoccupato su altri fronti offre varie possibilità di ridisegnare equilibri geopolitici. Si apre una nuova fase nel Medioriente moderno.
Fonte immagine copertina: Kobi Gideon/GPO
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