I comportamenti dell’industria finanziaria cominciano a essere contestati. Sia perché potrebbero aggravare la crisi del debito pubblico in Europa, sia perché potrebbero rendere difficoltosa la crescita dei paesi emergenti, facendo salire e scendere «troppo» le sue attività finanziarie, segnatamente i cambi. La novità non è da poco. In passato la finanza aveva una sua forza, ma questa era resa legittima dagli economisti – a livello individuale e delle grandi istituzioni, che pensavano che essa svolgesse un ruolo di «regolazione». Ora emergono i dubbi. Una forza, per quanto forte, senza legittimità intellettuale è vulnerabile.


Cominciamo dall’Europa. L’economista belga Paul De Grauwe (1) si chiede come sia possibile che l’industria finanziaria, che è stata evidentemente incapace di valutare il rischio per anni – quelli antecedenti la crisi – sia ora improvvisamente diventata capace di valutarlo correttamente. Che cosa è accaduto di tanto importante perché abbia appreso in soli due anni? La domanda è ovviamente retorica.

De Grauwe ha in mente il debito europeo e di questo discute. La finanza mette in ulteriore difficoltà un paese – poniamo la Grecia, che è in difficoltà per ragioni sue. La Grecia deve allora varare delle politiche fiscali di rientro, ma queste riducono la crescita del paese. La minor crescita greca è minor domanda d’importazioni. In Europa il grosso degli scambi è fra paesi europei, non con il resto del mondo. Dunque gli altri paesi europei esportano meno e quindi crescono meno, rendendo più difficile la gestione del proprio debito. Alla fine è molto mal messa la Grecia – la cicala – ma anche, seppur in misura minore, gli altri paesi – le formiche. Ecco l’effetto «contagio», di cui tanto si parla.

Quanto maggiori sono i rendimenti richiesti per sottoscrivere i debiti pubblici, tanto più difficile è controllare i debiti medesimi. Da un certo punto in poi, con rendimenti per sottoscrivere il debito pubblico «eccessivi», abbiamo la famosa «profezia che si autoavvera». Ossia, i debiti non vanno sotto controllo, perché si richiedono rendimenti che non possono portarli sotto controllo. E dunque la profezia che non erano sotto controllo è confermata. La profezia che si autoavvera, a ben guardare, sorge come «effetto in-intenzionale delle azioni intenzionali». Insomma abbiamo nientemeno che Popper e von Hayek come guide – certamente non stataliste – per comprendere il percorso che potrebbe essere imboccato in Europa a partire dalla Grecia, poi eventualmente proseguire con il Portogallo e la Spagna.

La parte implicita del ragionamento di De Grauwe è che alla fine si finirebbe con il «vivere peggio», perché l’industria finanziaria potrebbe non essere capace di dare un prezzo efficiente al rischio e agli «effetti collaterali» del medesimo.

Il Fondo Monetario il 19 febbraio ha pubblicato uno studio (2) nel quale sostiene nientemeno che le politiche di controllo dei flussi finanziari fra paesi potrebbero essere efficaci. Il punto è rilevante, perché prima si pensava che i controlli potessero essere sempre aggirati. Va notato che si discute di paesi emergenti. Per esempio, l’arrivo di enormi flussi di capitali allo scopo d’anticipare la rivalutazione di una moneta può spingere quella moneta troppo in alto, minando la competitività del paese.

Di nuovo, si afferma che l’industria finanziaria potrebbe non essere capace di formare dei prezzi «efficienti». Abbiamo ormai argomentazioni che mostrano come stia emergendo un grande scetticismo verso la finanza «autoregolata». Le argomentazioni degli economisti possono legittimare le decisioni di quei (non pochi) politici che vogliono ridurre il ruolo dell’industria finanziaria.



(1) http://blogs.ft.com/economistsforum/2010/03/should-financial-markets-dictate-budgetary-policies-in-the-eurozone/

(2) http://www.imf.org/external/pubs/ft/spn/2010/spn1004.pdf