Un discorso completamente economico non esiste. Appena si discute di politica economica si parla di politica. E l'economia – intesa come edificio scientifico – non è in grado di fornire un punto di vista oggettivo che convinca tutti, anche perché il ragionamento economico, quando si fa “pratica”, deve fare i conti con la storia, che ha molte dimensioni.
Esiste il “bene comune”?
Altrimenti detto, semmai esistesse un punto di vista oggettivo intorno “al bene comune”, alcuni lo rigetterebbero. Per esempio le pensioni italiane: chi ha una pensione maggiore dei contributi versati - la pensione di “anzianità” - difficilmente accetta di vedersela ridurre perché “è equo”. Si ha perciò un'opposizione politica. L'argomento di chi non accetta la riforma è che quel tipo di pensione negli anni passati funzionava in un altro mondo, quello in cui la maggioranza lavorava come dipendente nelle grandi organizzazioni tutta la vita – una vita che comunque era più breve - mentre la crescita della popolazione diluiva il peso delle pensioni sulle generazioni future. Poiché la pensione maggiore dei versamenti è giustificabile su base storica, ecco che diventa un “diritto acquisito”. Se però si aspetta che il tempo passi, tutte le pensioni diventano eguali ai versamenti – oggi tutte le pensioni sono “contributive”, e ciò avviene perché il sistema è stato riformato a partire dagli anni Novanta. Perciò le pensioni diventano eque man mano che chi ancora riceve una pensione di anzianità “passa a miglior vita”. A quel punto l'opposizione politica – è macabro dirlo - scompare. Quindi in questo caso “il bene comune” si manifesta solo nel lungo periodo, nella fattispecie in decenni.
Che non esista il bene comune “pronto per l'uso” lo si sa da tempo, per esempio da quando Schumpeter scrisse “Socialismo, Capitalismo, Democrazia”, dove si mostra che i politici cercano i voti per farsi eleggere, proprio come gli imprenditori cercano il fatturato, e da quando Olson scrisse “La logica dell'azione collettiva”, dove si mostra che i gruppi organizzati si impongono su quelli che non lo sono.
Le scuole di economia
Il pensiero detto “neo-classico” sostiene la tesi che i mercati, se lasciati liberi di funzionare, portano alla piena occupazione, mentre quello detto “keynesiano” sostiene la tesi che i mercati liberi di funzionare non portano necessariamente alla piena occupazione. I neo-classici e i keynesiani oggi sono conversi nella “sintesi neo-classica”: se l'economia non funziona, ecco che si ha l'intervento pubblico temporaneo. Quando serve il taxi lo si prende, poi, finita la corsa, lo si paga. In due parole: 1. è possibile che le economie producano e occupino meno di quanto potrebbero, perché non si spende quanto necessario. 2. certamente ci sono le forze che tendono a riportare l'economia verso la piena occupazione, ma queste agiscono lentamente. 3. si può però abbreviare questo periodo con la Banca centrale che schiaccia i tassi di interesse. 4. la politica monetaria però non basta, quando i tassi sono prossimi allo zero. Una fase temporanea di spesa pubblica in disavanzo può perciò dare una spinta all'economia.
Si possono trovare delle ragioni e dei torti in tutti gli edifici teorici. Secondo Weber l'etica della “testimonianza” non si cura delle conseguenze, perché a lei interessa il ribadire i principi, a differenza di quella della “responsabilità”. Perciò si ammette che ci sono molte verità, ma la scelta finale sulla direzione del proprio operare, alla fine, è quella della responsabilità intorno alle conseguenze.
Le vicende di questi anni
La vicende sono quelle della crisi iniziata nel 2007, ed esplosa nel 2008. Nei paesi anglosassoni la spesa pubblica in deficit è stata smisuratamente espansa – negli Stati Uniti si è tornati ad avere un deficit primario (ossia le spese meno le entrate prima di pagare gli interessi sul debito) pari al 10% del PIL, ossia un saldo primario della dimensione del PIL dell'Italia. La politica fiscale è stata prima espansa e poi contratta sia negli Stati Uniti, sia nel Regno Unito. Insomma, la “sintesi neoclassica”, proprio come nell'esempio del taxi. Anche la politica monetaria è stata espansa, sia portando i tassi a zero - dove sono ancora - sia comprando - fino allo scorso anno - il debito pubblico.
La politica fiscale (intesa sempre come saldo primario) non è stata espansa in Germania ed in Italia, ma è stata espansa prima e poi ridotta in Francia e Spagna. Nel complesso dell'euro-zona la politica fiscale non è stata espansa come nei paesi anglosassoni, mentre la politica monetaria è stata espansa molto, anche se con ritardo rispetto ai paesi anglosassoni.
Effetti diversi dalle intenzioni
Si pensa che le politiche delle banche centrali di acquisto di obbligazioni funzionino. L'idea è che togliendo dal mercato una quantità cospicua di obbligazioni, i prezzi di quelle che restano saliranno, perché il settore privato comunque le domanda. Questa domanda, a fronte di una offerta ridotta, spingerà i rendimenti delle obbligazioni in basso, poiché la cedola è fissa mentre il prezzo sale. I bassi rendimenti del debito pubblico spingeranno all'acquisto di obbligazioni private e di azioni. Anche i prezzi di questa attività saliranno, e quindi il costo del denaro scenderà: le imprese che emettono nuove obbligazioni pagheranno una cedola ridotta, e le emissione azionarie saranno stimolate perché fatte a prezzi maggiori (ossia non si diluisce troppo la quota dei vecchi azionisti). Infine, le banche, cedendo i molti titoli obbligazionari nei loro portafogli, potranno riprendere ad erogare credito. Perciò si ha un minor costo del capitale ed un maggior credito. Il ragionamento è “inebriante”, ma si possono fare due critiche: la prima politica e la seconda empirica. L'entusiasmo nei confronti dell'intervento pubblico (perché di questo si tratta) tradisce un certo scetticismo sulla capacità di auto regolarsi dei mercati. Ad essa si preferiscono infatti dosi crescenti di stimolo monetario, che non generano inflazione nel campo dei beni e servizi, ma ne generano nel campo finanziario (i prezzi delle attività finanziarie salgono). Si ha quindi l'entusiasmo per il Principe che regola la vita dei sudditi riducendo il ruolo dei mercati. E questa è la parte politica.
Quella empirica è relativa all'effetto di queste politiche. Una parte dei proventi ottenuti dalla vendita di obbligazioni alla Banca centrale statunitense sono stati trasformati - soprattutto per l'agire degli operatori esteri - in acquisti cospicui di obbligazioni denominate in dollari dei paesi emergenti. Questi ultimi si sono così indebitati in dollari. Il maggior debito di questi paesi genera però una situazione nuova. Se i tassi di interesse statunitensi fossero alzati, questi paesi si troverebbero indebitati in una moneta che si rivaluta, mentre i loro ricavi sarebbero in valute locali che si svalutano. Con tassi di interesse negli Stati Uniti più elevati che in altri paesi la domanda di dollari aumenterebbe e quindi si avrebbe una rivalutazione della moneta Nordamericana. Si rischia così, quando i tassi saranno rialzati, di mettere in difficoltà chi già risente pesantemente della crisi cinese.
Questa “trappola”, che spiega parte della cautela della Banca centrale statunitense ad alzare i tassi, potrebbe prolungare l'intervento pubblico in campo monetario oltre il necessario, ossia, per tornare alla metafora, si rischia di restare per troppo tempo sul taxi. In conclusione, la macro-economia mainstream, che vuole un intervento pubblico solo temporaneo, rischia un intervento permanente. La scelta, che contraddice i principi, alla fine, dipende dall'etica della responsabilità.
© Riproduzione riservata